COVID-19 nella Bergamasca
COVID-19 in the Bergamo area

Marco Rizzi
Direttore Unità Malattie Infettive ASST Papa Giovanni XXIII Bergamo

ll contesto
La Lombardia è stata la regione italiana più colpita dall’epidemia: nei tre mesi tra il 20 febbraio ed il 18 giugno 2020 sono stati diagnosticati 92.518 casi di malattia (su un totale nazionale di 238.159), e sono stati registrati 16.516 decessi (su un totale nazionale di 34.514) in persone con malattia da SARS-CoV-2. I numeri succitati si riferiscono ai casi di malattia confermati con diagnosi virologica, che nel periodo considerato in Lombardia sono stati quasi esclusivamente costituiti da pazienti ricoverati con grave sindrome respiratoria. Il numero complessivo delle persone colpite non è al momento stimabile con ragionevole approssimazione: sono stati avviati alcuni studi di sieroprevalenza, ed è in corso l’analisi dei registri anagrafici per stimare l’eccesso di mortalità osservato nella popolazione generale durante il periodo di maggiore attività epidemica.
Nell’ambito della Regione Lombardia la provincia di Bergamo (1.116.248 abitanti al 30/11/2019) è stata particolarmente colpita: sempre con riferimento ai dati con diagnosi virologica, nel periodo considerato sono stati registrati 14.033 casi. Solo le province di Lodi e di Cremona hanno registrato una incidenza maggiore (pur se con numeri assoluti inferiori). In provincia sono presenti tre aziende sanitarie pubbliche (ASST Papa Giovanni XXIII, ASST Bergamo Ovest e ASST Bergamo Est) e diversi ospedali privati, di medie e piccole dimensioni: tutti sono stati in varia misura coinvolti dall’emergenza COVID-19. La ASST Papa Giovanni XXIII è stata la maggiore sede provinciale di ricovero di persone con COVID-19: dall’inizio dell’epidemia al 15/06/2020 sono state ricoverate 2.012 persone con malattia da SARS-CoV-2; tra le persone ricoverate, 260 sono transitate dai reparti di terapia intensiva, 434 sono decedute durante l’episodio di ricovero; 1.100 pazienti sono transitati per il Pronto Soccorso senza essere ricoverati.

L’epidemiologia locale
Quali sono gli elementi che hanno caratterizzato l’epidemia da COVID-19 nella bergamasca?
Dal punto di vista epidemiologico è ben noto il ruolo svolto all’inizio dell’epidemia dalla trasmissione nosocomiale presso il piccolo ospedale di Alzano Lombardo: questo è stato sicuramente un importante “amplificatore” iniziale della diffusione del virus in un periodo, le prime 3 settimane di febbraio, durante il quale l’approccio diagnostico raccomandato ancora prevedeva la ricerca dell’associazione di sindrome respiratoria con la Cina (soggiorno in Cina, contatto con persone provenienti dalla Cina, …).
È possibile che un altro “amplificatore” sia stato costituito dalla partita di calcio Atalanta-Valencia svoltasi a Milano il 19 febbraio: ora sappiamo che all’epoca di quel “mass gathering” il SARS-CoV-2 già circolava sia a Bergamo che a Valencia.
Quel che è certo è che durante l’ultima decade di febbraio, quando si riconobbe la presenza del virus nella nostra comunità e si iniziò a discutere di “zone rosse” ad Alzano e Nembro, poi in tutta la provincia di Bergamo, poi nell’intera regione ed oltre, il virus era già ampiamente diffuso nella bergamasca: questo spiega la straordinaria rapidità di crescita dell’epidemia, che tra fine febbraio e fine aprile ha messo a dura prova la tenuta del sistema sanitario: dai servizi di prevenzione alla medicina del territorio, dal sistema dell’emergenza/urgenza ai pronto soccorso, ai reparti di degenza ed alle unità di terapia intensiva.
Mentre l’ospedale Bolognini di Seriate (ASST Bergamo Est) veniva designato dalla Regione come presidio interamente COVID-19 dedicato, gli altri presidi ospedalieri pubblici e privati della provincia riducevano progressivamente l’attività “nonCOVID-19” per accogliere le persone con COVID-19; presso la ASST Papa Giovanni XXIII al picco dell’epidemia si arrivò ad avere 550 persone con COVID-19, di cui 150 in cPAP (presso i reparti di degenza) e 92 in terapia intensiva (quasi tutti in ventilazione meccanica). Un ovvio “effetto collaterale” dell’epidemia: molte prestazioni non urgenti per patologia nonCOVID-19 sono state rinviate: si è così accumulato un arretrato che richiederà molti mesi per essere smaltito. Più grave: durante la fase peggiore dell’epidemia, la tempestività ed adeguatezza della risposta a problemi di salute urgenti “nonCOVID-19” si è notevolmente ridotta: questo ha sicuramente avuto un impatto rilevante sugli esiti delle patologie “nonCOVID-19”, che è ancora in larga parte da misurare.

La fase 2: il follow-up
La gran parte delle persone assistite per COVID-19 presso gli ospedali o i pronto soccorso degli ospedali bergamaschi sono state dimesse precocemente, con malattia ancora sintomatica, per l’impellente necessità di accogliere in ospedale un gran numero di pazienti in condizioni cliniche gravi. Molte di queste persone potrebbero avere problemi di salute ancora attivi; considerata la complessità della malattia da SARS-CoV-2 e la scarsità delle conoscenze in merito ai postumi ed agli esiti a medio e lungo termine, è apparso da subito necessario avviare un percorso di follow-up per le persone sopravvissute all’episodio acuto di malattia; al Papa Giovanni XXIII è stata condotta nel mese di maggio la fase pilota del progetto “Surviving COVID-19”, che dall’inizio di giugno prosegue presso l’ospedale da campo. Saranno prese in carico tutte le persone transitate dal PS e dai reparti della ASST Papa Giovanni XXIII, con il duplice intento di intercettare i bisogni di salute dei pazienti e raccogliere dati sugli outcomes a medio e lungo termine di COVID-19. Nel mese di luglio sarà avviata la fase provinciale del progetto, concordata con la ATS Bergamo ed estesa a tutti i presidi ospedalieri della provincia, con un pannello di accertamenti e di raccolta dati più ristretto.

Le infezioni correlate all’assistenza
Nei mesi dell’epidemia COVID-19 l’ospedale di Bergamo è stato completamente riconfigurato: questo ha ovviamente avuto un impatto rilevante anche sulla circolazione dei batteri MDR; durante le prime settimane dell’epidemia si è osservato un netto decremento delle infezioni da KPC/CPE ed altri batteri multiresistenti; poi, nel corso del mese di marzo, con il crescere del numero di pazienti con degenze protratte in terapia intensiva, sono emerse con incidenza crescente le infezioni correlate all’assistenza ad origine respiratoria: Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter, aspergilli… L’ecosistema microbico ospedaliero è radicalmente mutato.

Un infettivologo in ogni ospedale?
Un ultimo tema: la maggior parte delle strutture di ricovero e cura della nostra regione, pubbliche e private, sono prive di competenze infettivologiche proprie; talvolta è presente nell’organico un medico specialista in Malattie Infettive, ma assegnato a compiti clinici vari (in reparti di Medicina Interna, in Pronto Soccorso, …); l’epidemia da SARS-CoV-2 ha evidenziato la fragilità di questi ospedali sul fronte infettivologico ed igienistico. Alcune funzioni infettivologiche di base devono essere assicurate presso tutti i luoghi di cura, e non da isolati specialisti abbandonati a se stessi e carichi di incombenze varie; competenze, expertise e risorse infettivologiche devono essere messe in condivisione in una logica organizzativa di rete; solo così potremo affrontare al meglio quel che resta del problema COVID-19 ed i problemi infettivologici emergenti e riemergenti che il futuro ci porterà; e potremo gestire in modo appropriato i problemi quotidiani in tema di infezioni correlate all’assistenza ed uso appropriato dei farmaci antimicrobici; anche di questo, passato l’uragano COVID-19, dovremo tornare ad occuparci.