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A cura di Giulia De Angelis


Tre invece di sei: proposta di semplificazione della tecnica di igiene delle mani con gel alcolico

L’adesione al protocollo di igiene delle mani raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità1 è ancora un problema aperto, poiché risulta ancora scarsa in molti studi di sorveglianza. Se da una parte l’introduzione del gel a base alcolica ha migliorato la performance poiché più rapida ed efficacie del lavaggio con acqua e sapone in molte circostanze, la tecnica basata sui “sei momenti” raccomandata dall’OMS rappresenta ancora un ostacolo ad una compliance ottimale. Nel primo numero di gennaio 2017 della rivista Clinical Microbiology and Infection, Tschudin-Sutter et al.2 pubblicano i risultati di uno studio che ha valutato l’efficacia di una procedura “semplificata” di igiene delle mani tramite gel alcolico. Trentadue volontari sono stati assegnati in maniera randomizzata ad una procedura standard di igienizzazione in sei (braccio di riferimento) o sole tre fasi (braccio di intervento) dopo contaminazione con una sospensione a concentrazione nota di Escherichia coli. Le tre fasi selezionate consistevano in: 1) versare nel palmo della mano una quantità di prodotto sufficiente per coprire tutta la superficie delle mani; 2) frizione rotazionale in avanti e indietro con le dita della mano destra nel palmo sinistro e viceversa; 3) frizione rotazionale del pollice sinistro stretto nel palmo destro e viceversa. Il risultato dello studio era il confronto tra i due bracci della riduzione di conta batterica dopo igienizzazione. L’adesione alle diverse fasi è risultata del 100% in entrambi i bracci. I risultati hanno mostrato una riduzione statisticamente significativa della conta batterica maggiore nel braccio di intervento rispetto al braccio di riferimento. I risultati dello studio permettono di concludere che questa tecnica così semplificata possa sostituire quella finora raccomandata, poiché di pari se non maggiore efficacia, ponendo ottime possibilità al miglioramento dell’adesione.
1. Organization WH. Who guidelines on hand hygiene in health care, first global patient safety challenge clean care is safer care. 2009.
2. Tschudin-Sutter S, Rotter ML, Frei R, Nogarth D, Häusermann P, Stranden A, Pittet D, Widmer AF, Simplifying the WHO “how to hand rub” technique: three steps are as effective as six – results from an experimental randomized cross-over trial, Clinical Microbiology and Infection (2017), doi: 10.1016/j.cmi.2016.12.030.




Nuove metodiche per l’identificazione di focolai epidemici

Per Whole Genome Sequencing (WGS) si intende una tecnica che permette il sequenziamento dell’intero genoma di un organismo. Questa tecnica sperimentale è stata recentemente utilizzata per indagare epidemie ospedaliere, poiché permette di individuare ceppi genotipicamente correlati attraverso la rilevazione di varianti nucleotidiche. Due diverse epidemie di Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi di tipo KPC avvenuti nel 2013 e nel 2015 in due ospedali svizzeri sono stati valutati retrospettivamente attraverso questa tecnica. Dodici ceppi provenienti dalle due epidemie e sei ceppi non epidemiologicamente correlati ai due episodi sono stati selezionati “in cieco” e analizzati con WGS. L’analisi di similitudini genotipiche tramite WGS ha permesso la corretta identificazione dei due clusters appartenenti ai due focolai epidemici. Solo il ceppo indice della seconda epidemia si è rivelato abbastanza diverso dagli altri. Secondo gli autori il motivo sarebbe imputabile alla colonizzazione di lunga durata di questo ceppo di K. pneumoniae KPC, con conseguente accumulo di mutazioni “aggiuntive” nel tempo. Lo studio conclude che, laddove applicabile, il WGS rappresenta una tecnica promettente nella mappatura epidemiologica dei focolai epidemici.
1. Ruppé E, Olearo F, Pires D, Baud D, Renzi G, Cherkaoui A, Goldenberger D, Huttner A, François P, Harbarth S, Schrenzel J, Clonal or not clonal? Investigating hospital outbreaks of KPC-producing Klebsiella pneumoniae with whole-genome sequencing, Clinical Microbiology and Infection (2017), doi: 10.1016/j.cmi.2017.01.015.

Il ruolo degli operatori sanitari nella trasmissione di Staphhylococcus aureus in terapia intensiva

Nella rivista The Lancet Infectious Diseases, Prezzo et al. presentano i risultati di uno studio di coorte longitudinale di 14 mesi effettuato in una terapia intensiva di un ospedale inglese. Durante il periodo di studio 1854 pazienti sono stati sottoposti a tampone nasale per la ricerca di Staphylococcus aureus al momento del ricovero, poi settimanalmente e al momento della dimissione. In parallelo, 198 operatori sanitari e 40 siti dell’ambiente circostante i pazienti sono stati valutati con lo stesso scopo, ad intervalli mensili. Il 58% degli operatori sanitari e il 21% dei pazienti al momento dell’ingresso in reparto sono risultati colonizzati da S. aureus. Il 19% degli operatori sanitari hanno mostrato una colonizzazione persistente. Su 97 casi di nuova acquisizione di colonizzazione da S. aureus, l’analisi genotipica dei ceppi tramite whole genome sequencing ha rivelato solo 25 episodi di probabile trasmissione (definita da differenza tra ceppi non superiore a 40 varianti nucleotidiche), di cui 7 da operatori sanitari, 2 dall’ambiente e 16 da altri pazienti. Lo studio sottolinea il ruolo limitato degli operatori sanitari e dell’ambiente come fonti di trasmissione di S. aureus in terapia intensiva. È probabile che altri fattori di rischio, purtroppo non indagati in questo studio, abbiano contribuito all’acquisizione. Un limite della studio è la scelta di rilevazione mensile di S. aureus negli operatori sanitari e nell’ambiente, che può aver sottostimato le colonizzazioni transitorie.
1. Price JR, Cole K, Bexley A, et al. Transmission of Staphylococcus aureus between health-care workers, the environment, and patient in an intensive care unit:a longitudinal cohort study based on whole-genome sequencing. Lancet Infect Dis 2016; published online Nov 15. http://dx.doi. org/10.1016/S1473-3099(16)30413-3.

Nuove strategie terapeutiche per la prevenzione delle infezioni da Clostridium difficile

Clostridium difficile è la causa più comune di diarrea infettiva nei pazienti ospedalizzati. Le recidive sono comuni dopo la terapia antibiotica. Nel primo numero del 2017 della rivista New England Journal of Medicine vengono riportati i risultati di due studi randomizzati controllati che hanno valutato l’uso di due anticorpi monoclonali, actoxumab e bezlotoxumab, diretti contro le tossine A e B di C. difficile, rispettivamente, per la prevenzione delle recidive. Duemilaseicentocinquantacinque pazienti adulti con infezione primaria o con una recidiva in terapia orale standard (metronidazolo, vancomicina o fidaxomicina) sono stati inclusi e randomizzati a diverse strategie: bezlotoxumab (10 mg/kg), actoxumab più bezlotoxumab (10 mg per kg ognuno), o placebo. In entrambi gli studi, il tasso di recidiva di infezione da C. difficile era significativamente più basso nei bracci bezlotoxumab in monoterapia e actoxumab più bezlotoxumab rispetto a placebo. La percentuale di eventi avversi, perlopiù diarrea e nausea, sono risultati simili al placebo.
1. Wilcox MH, Gerding DN, Poxton IR, et al. Bezlotoxumab for prevention of recurrent Clostridium difficile infection. N Engl J Med 2017;376:305-17.