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A cura di Giulia De Angelis


I giovani medici di domani si sentono preparati nell’uso corretto della terapia antibiotica?
La prescrizione di terapia antibiotica rimane pratica molto comune in qualsiasi branca specialistica, per la quale, quindi, qualsiasi medico dovrebbe essere preparato accademicamente, indipendentemente dalla scelta della futura specializzazione. I giovani medici percepiscono, oggi forse più di un tempo, che l’uso responsabile dell’antibiotico è fondamentale per preservarne l’efficacia.
Come percepiscono i giovani studenti di medicina la propria preparazione accademica in termini di prescrizione di corretta terapia antibiotica? Due interessanti lavori sono stati pubblicati a tal proposito su recenti numeri della rivista Journal of Antimicrobial Chemotherapy.
Nel primo,1 il gruppo di studio di Antimicrobial Stewardship della Società Europea di Malattie Infettive e Microbiologia (ESGAP) ha pubblicato i risultati di un questionario sottoposto a 179 studenti dell’ultimo anno del corso di laurea di Medicina e Chirurgia, provenienti da 29 Paesi d’Europa. Scopo del questionario era indagare il livello di  preparazione percepita sull’uso prudente degli antibiotici. I risultati principali sono stati i seguenti.
• In generale, il 37,3% degli studenti ha riferito di desiderare una migliore educazione sull’uso prudente degli antibiotici.  Questa percentuale si distribuiva in un ampia forbice, oscillante tra il 20,3% in Svezia e il 94,3% in Slovacchia. Il 71-80% degli intervistati italiani ha risposto in maniera affermativa a questa domanda.
• È risultata esserci una correlazione tra il livello di antibiotico-resistenza nazionale e la percezione di preparazione. In altre parole, maggiore era la prevalenza di antibiotico-resistenza, inferiore il livello di preparazione percepito dagli studenti di quel Paese e maggiore il desiderio di una migliore preparazione.
• Più del 95% degli studenti intervistati ha dichiarato di sentirsi sufficientemente preparato nel riconoscere segni e sintomi di infezione e nel saper interpretare i comuni marcatori di infiammazione. D’altra parte una marcatamente più bassa percentuale (tra il 40 e il 45%) di studenti ha dichiarato di sentirsi libero nella discussione con i propri superiori in situazioni dove questi ritenevano che l’antibiotico fosse non necessario, ma si erano sentiti comunque obbligati a prescriverlo. Un ulteriore argomento di insufficiente preparazione è risultata essere la durata della terapia antibiotica.
Per quanto riguarda i metodi di insegnamento, la discussione di casi clinici ed i piccoli gruppi di lavoro sono risultati  quelli percepiti come i più utili per l’apprendimento, seguiti dalla frequentazione di un reparto di malattie infettive, da discussioni interattive “alla pari” e da insegnamento formale.
Infine, l’insegnamento per via telematica (in lingua inglese e-learning) è risultato il meno interessante per i giovani studenti ai fini dell’apprendimento sull’uso prudente di terapia antibiotica.
È tuttavia necessario precisare, in merito a questo ultimo punto, che uno studio prospettico svolto in un’università olandese2 ha dimostrato un risultato diverso. L’inserimento di un corso telematico (e-learning) su temi di stewardship antibiotica ha migliorato la performance di superamento dell’esame accademico specifico su questo tema dall’86% del gruppo di controllo al 97% del gruppo di intervento (+11%, OR 5.9 IC95% 1.7-20.0), rivelandosi un mezzo promettente per la preparazione dei giovani medici in tema di prescrizione di terapia antibiotica.
1. Dyar OJ, Nathwani D, Monnet DL, Gyssens IC, Stålsby Lundborg C, Pulcini C; ESGAP Student-PREPARE Working Group . Do medical students feel prepared to prescribe antibiotics responsibly? Results from a cross-sectional survey in 29 European countries. J Antimicrob Chemother 2018 Aug 1;73(8):2236-42.
2. Sikkens JJ, Caris MG, Schutte T, Kramer MHH, Tichelaar J, van Agtmael MA. Improving antibiotic prescribing skills in medical students: the effect of e-learning after 6 months. J Antimicrob Chemother 2018 Aug 1;73(8): 2243-6.



Stewardship antifungina: l’esperienza di un ospedale inglese
L’uso corretto di terapia antifungina condivide con la stewardship antibiotica molti elementi, ma ha, rispetto a quest’ultima, caratteristiche e sfide specifiche, legate alla minore disponibilità e rapidità dei metodi diagnostici, alla limitata preparazione prescrittiva al di fuori di centri specialistici ed alla minore evidenza scientifica su temi di efficacia di stewardship antifungina.  
Il programma di stewardship antifungina dell’ospedale Wythenshawe di Manchester,1 Inghilterra, si è sviluppato nel corso di un lungo periodo, con i seguenti obiettivi: sviluppare linee guida specifiche, migliorare le conoscenze tramite educazione, migliorare la diagnosi  e ridurre l’uso non necessario di antifungini. Cuore delle linee guida è il riconoscimento del paziente con sospetta candidosi invasiva e l’esecuzione contemporanea di emocolture e saggio sierologico beta-D-1,3-glucano (BDG), il cui risultato stabilisce, a 48-96 ore, la prosecuzione o la sospensione della terapia antifungina iniziata. Soprattutto l’alto valore predittivo negativo del BDG, in presenza di emocolture negative, giustifica la sospensione precoce di terapia.
L’impatto del programma è stato valutato in due periodi distinti, entrambi della durata di 4 mesi, prima e dopo l’implementazione delle linee guida descritte. Il programma si è dimostrato efficace nel ridurre l’inizio di terapia antifungina quando non necessario del 90% (da 18 casi nel 2014 a 2 casi nel 2016). Come secondo obiettivo, il consumo di antifungino è risultato inferiore del 49% tra il primo e il secondo periodo. Infine, la mortalità dovuta a candidosi invasiva provata o probabile si è ridotta dal 45% al 19%.
1. Rautemaa-Richardson R, Rautemaa V, Al-Wathiqi F, Moore CB, Craig L, Felton TW, Muldoon EG. Impact of a diagnostics-driven antifungal stewardship programme in a UK tertiary referral teaching hospital. J Antimicrob Chemother 2018, Sep 24. doi: 10.109 3/jac/dky360.



Strategie di decontaminazione dell’ambiente ospedaliero: effetti diretti e indiretti
L’ambiente ospedaliero è noto essere fonte di trasmissione di patogeni attraverso la loro sopravvivenza sulle superfici. La disinfezione dell’ambiente successiva alla dimissione di un paziente colonizzato da patogeni multiresistenti agli antibiotici o da Clostridium difficile non è sempre sufficiente alla decontaminazione, pertanto i pazienti ricoverati successivamente nella medesima stanza sono a rischio di acquisire tali patogeni. Nel 2017 sono stati pubblicati i risultati dello studio BETR (Benefits of Enhanced Terminal Room Disinfection Study), il primo trial multicentrico randomizzato che ha messo a confronto l’efficacia di quattro strategie di disinfezione ambientale di stanze precedentemente occupate da pazienti positivi  sull’incidenza di nuove colonizzazioni e infezioni nei nuovi pazienti ricoverati. La disinfezione standard a base di disinfettante con ammonio quaternario è stata messa a confronto con tre strategie “potenziate”: a) ammonio quaternario +irraggiamento ultravioletto (UV), b) sodio ipoclorito, c) sodio ipoclorito + irraggiamento UV. I risultati hanno mostrato che l’aggiunta dell’irraggiamento UV alla disinfezione aveva un effetto protettivo diretto sul rischio di acquisire C. difficile e enterococchi vancomicina-resistenti nei pazienti successivamente ricoverati.
In un recente numero della rivista Lancet Infectious Diseases,1 sono stati pubblicati i risultati di un’analisi secondaria di questo stesso trial. Gli autori hanno valutato se le strategie di decontaminazione avessero anche un effetto “indiretto” sull’incidenza di acquisizione ospedaliera di diversi patogeni nosocomiali, quali C. difficile, Staphylococcus aureus resistente a meticillina, enterococchi vancomicina-resistenti e Acinetobacter baumannii multiresistente. Seppur in maniera non statisticamente significativa, gli autori hanno mostrato un effetto delle diverse strategie sulla riduzione del rischio di nuove infezioni e colonizzazioni da parte di questi patogeni, in generale nel loro ospedale, sottolineando l’effetto benefico indiretto su altri pazienti ospedalizzati.
1. Anderson DJ, Moehring RW, Weber DJ, Lewis SS, Chen LF et al.; CDC Prevention Epicenters Program. Effectiveness of targeted enhanced terminal room disinfection on hospital- wide acquisition and infection with multidrug-resistant organisms and Clostridium difficile: a secondary analysis of a multicenter cluster randomised controlled trial with crossover design (BETR Disinfection). Lancet Infect Dis 2018 Aug;18(8):845-53.



Controllo delle infezioni e immigrazione
Il crescente problema dei flussi di immigrazione in Europa negli ultimi anni ha sollevato diversi quesiti e sfide anche per la salute pubblica. È noto che la prevalenza di patologie infettive come tubercolosi, epatite e HIV sia significativamente più alta negli immigrati da aree endemiche rispetto alla popolazione generale europea. Una migliore comprensione di quali possano essere le migliori strategie di screening, di vaccinazioni e servizi sanitari e come possano essere erogate a questa categoria di persone è oggi doveroso.
Sulla rivista Lancet Infectious Diseases1 sono stati recentemente pubblicati i risultati di una revisione sistematica della letteratura. Scopo del lavoro era individuare studi che avessero valutato l’efficacia e la costo-efficacia di strategie di screening negli immigrati, e al contempo analizzato facilitatori o barriere all’accesso a questi programmi. La ricerca ha individuato 47 studi, eseguiti in 10 paesi europei diversi, inclusi Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera, Inghilterra. La maggior parte dei programmi descritti erano focalizzati sullo screening di singole patologie, di cui la tubercolosi era la più frequente. I principali risultati cumulativi degli indicatori selezionati sono i seguenti:
• 79,5%: migranti che hanno accettato di aderire allo screening  offerto
• 39,3%: migranti che sono stati effettivamente sottoposti allo screening
• 3,7%: migranti risultati positivi per l’infezione oggetto dello screening
• 24,6%: migranti che hanno iniziato il programma di screening ma ne sono usciti prima di raggiungere una diagnosi
• 83,8%: migranti che hanno completato il trattamento offerto
• 60,1%: migranti con infezioni riscontrate per altri motivi, pertanto non identificate dal programma di screening
Diverse barriere ai programmi di screening sono state identificate nei 47 studi inclusi, che gli autori riassumono in 4 temi principali: insensibilità nei confronti dei migranti (per esempio, la paura o il razzismo percepiti dai migranti), cultura e mentalità individuale (per esempio, bassa percezione del rischio di malattia, paura della stimmate data dalla presenza di malattia), barriere strutturali (per esempio, fondi) e altre barriere individuali (per esempio, scarsa comunicazione e informazioni insufficienti).
Al contrario, facilitatori al successo dei programmi di screening sono stati identificati, tra gli altri, nell’adeguatezza e preparazione del personale coinvolto,nel coinvolgimento e collaborazione e nel mantenimento dell’anonimato.
1. Seedat F, Hargreaves S, Nellums LB, Ouyang J, Brown M, Friedland JS. How effective are approaches to migrant screening for infectious diseases in Europe?  A systematic review. Lancet Infect Dis 2018Sep;18(9):e259-e71.