“La contagione pestifera”:
l’epidemia del 1452 a Cremona

The plague contagion": the epidemic of 1452 in Cremona


Elisa Chittò

Docente di Italiano e Storia
Liceo Artistico Bruno Munari
Cremona


Riassunto. Fra le malattie infettive mai del tutto scomparse troviamo la peste: il batterio Yersinia pestis è ancora fra noi, e ogni anno si hanno segnalazioni soprattutto nelle parti più povere del mondo; ma si tratta di una malattia ora facilmente curabile. Ed è a questa terribile malattia epidemica, che a partire dal 1348 ha cominciato duramente a colpire le nostre città, che possiamo guardare per scoprire molte analogie con il presente e i modelli di contenimento che i nostri antenati avevano sviluppato. Un esempio può essere l’ondata di peste che aveva colpito il ducato di Milano fra il 1450 e il 1452, e nello specifico Cremona, città duramente colpita da Covid-19 dalla primavera 2020. Dai carteggi scambiati fra il duca Francesco Sforza, il suo luogotenente Giovanni da Tolentino e i magistrati della città è possibile ricostruire i provvedimenti che erano stati messi in atto per arginare e limitare il contagio, spesso accompagnato da guerre e carestie. Fra i più diffusi e forse efficaci vi erano i controlli alle porte cittadine per impedire l’ingresso di persone provenienti dai luoghi sospetti, l'introduzione di officiali sanitari addetti alla sorveglianza della salute pubblica, l’allontanamento degli ammalati in zone lontane e difficilmente raggiungibili da familiari e conoscenti, la chiusura delle case abitate da gente sospettata di essere infetta, il controllo su poveri e mendicanti per evitare che circolassero per le strade spargendo il morbo ovunque. Non sempre Milano riusciva ad imporre l'uso di misure drastiche ai podestà e ai magistrati delle città del Ducato, i quali erano sempre riluttanti a metterle in pratica.

Parole chiave. Peste, Ducato di Milano, Strategie di prevenzione e controllo delle infezioni.

 

Summary. Among the infectious diseases that have never completely disappeared we find plague: the bacterium Yersinia pestis is still among us, and every year there are reports especially in the poorest parts of the world; but it is now an easily treatable disease. And it is to this terrible epidemic disease, which from 1348 began to hit hard our cities, that we can look to discover many similarities with the present and the containment models that our ancestors had developed. An example can be the wave of plague that hit the Duchy of Milan between 1450 and 1452, and specifically Cremona, a city hard hit by Covid-19 since spring 2020. From the correspondence exchanged between Duke Francesco Sforza, his Lieutenant Giovanni da Tolentino and the city magistrates, it is possible to reconstruct the measures that had been put in place to prevent and limit the contagion, often accompanied by wars and famines. Among the most widespread and perhaps effective strategies were the checks at city gates to prevent entrance of people coming from places at risk of the disease, the introduction of health officials responsible for public health surveillance, the removal of sick people to distant and difficult to reach areas by family members and acquaintances, the closing of houses inhabited by people suspected of being infected, the control over the poor and beggars to prevent them from circulating on the streets spreading the disease. Milan was not always able to impose the use of drastic measures on the city mayors and magistrates of the cities of the Duchy, who were always reluctant to put them into practice.

Key words. Plague, Duchy of Milan, Infection control and prevention strategies.


Introduzione

In questi ultimi mesi abbiamo imparato a mettere in atto alcune misure preventive per contenere l’epidemia da nuovo coronavirus SARS-CoV-2: le chiusure totali o parziali, il distanziamento sociale, le quarantene e il tracciamento dei contatti, l’uso di mascherine e l’igiene frequente delle mani. Si tratta di azioni utili per mitigare l’incidenza dei contagi, ma che sicuramente da sole non bastano per porre fine alla pandemia. Si nutrono grandi speranze nella scoperta di vaccini e di nuovi farmaci in grado di curare la malattia Covid-19, ma non possiamo ancora sapere quando e se la pandemia finirà. E diversi virologi ed epidemiologi ipotizzano che il SARS-CoV-2 resti endemico fra la popolazione. Di questo parere è anche Nukhet Varlik, docente di Storia presso l’Università della Carolina del Sud, esperta di storia delle malattie infettive e delle loro conseguenze nella storia umana, che suggerisce di guardare indietro e scavare nel nostro passato, piuttosto che ipotizzare previsioni.1

Fra le malattie mai del tutto scomparse troviamo ad esempio la peste: il batterio Yersinia pestis è ancora fra noi, e ogni anno si hanno segnalazioni soprattutto nelle parti più povere del mondo, come l’Africa e l’America del Sud; ma è una malattia ora facilmente curabile con un antibiotico specifico. Ed è a questa terribile malattia epidemica, che a partire dal 1348 ha cominciato duramente a colpire le nostre città, che possiamo guardare per scoprire le analogie con il presente e i modelli di contenimento che i nostri antenati avevano sviluppato. Un esempio può essere l’ondata di peste che aveva colpito il ducato di Milano nel 1452, e nello specifico Cremona, città pesantemente colpita da Covid-19 dalla primavera 2020.2


Le epidemie del XV secolo nel Ducato di Milano


I tentativi di contenimento

Dal 1348, il terribile anno in cui la ‘peste nera’, chiamata anche ‘peste bubbonica’, aveva cominciato a colpire duramente le nostre città, la malattia era rimasta pressoché endemica, accendendo di tanto in tanto nuovi focolai con diversi gradi di intensità, tanto da riproporsi ancora con grande virulenza nello Stato di Milano e nelle aree circostanti nel 1630.

Fra Tre e Quattrocento, prìncipi e autorità cittadine avevano imparato alcune misure preventive – senza tuttavia proporre cure, perché quel poco che la medicina del tempo conosceva non si era mai dimostrato efficace – per contenere le epidemie di peste, emanando ordini, gride e regolamenti per tentare di scongiurare il suo ritorno o di limitare il contagio che, malgrado i loro sforzi, aveva continuato a ripresentarsi a cadenza quasi periodica, fortunatamente senza raggiungere il numero delle vittime delle epidemie del 1348 e del 1630.

Ogni volta che si manifestava il pericolo di una nuova epidemia, podestà e ufficiali sanitari delle città davano l’ordine di limitare i movimenti di merci e persone sbarrando gli ingressi dalle porte alle persone e ai mercanti che provenivano dai luoghi sospetti, controllando i sobborghi, imponendo quarantene, allontanando gli infetti, che dovevano essere denunciati agli anziani delle parrocchie, e rinchiudendo in casa i loro familiari, migliorando le condizioni igieniche degli abitanti.3

Nel Ducato di Milano, ad esempio, già al tempo del duca Gian Galeazzo Visconti (1351-1402)4 erano stati creati in tutte le città gli “officiali delle bollette” che avevano il compito di controllare le lettere che entravano e uscivano dallo Stato e verificare chi alloggiava presso privati o albergatori; durante le epidemie di peste avevano anche incarichi speciali e di controllo sul rispetto degli ordini. Durante il governo di Filippo Maria Visconti (1392-1447)5 era stato istituito un “Ufficio di sanità” stabile, il quale decideva, in tutte le città del ducato, quando i malati dovevano essere allontanati dal centro urbano, insieme alle persone che avevano avuto un contatto con gli infetti. Con l’andare del tempo si era preferito chiudere le case colpite dal morbo per evitare di realizzare strutture provvisorie nelle campagne per ricoverare gli appestati, ma erano stati realizzati anche i lazzaretti stabili per isolare non solo i cittadini contagiati, ma anche i poveri e gli accattoni, che venivano assistiti dagli istituti ospedalieri e caritativi per non farli morire di fame. Ad esempio, a Cremona durante l’epidemia del 1468 per sostentare i malati ricoverati nel Mezzano6 avevano contribuito il vescovo, il monastero di San Lorenzo, l’ospedale di Santa Maria della Pietà, il consorzio Della Donna e altri istituti religiosi.7

Per evitare le crisi economiche conseguenti alle chiusure e per non sospendere i commerci, i duchi di Milano avevano creato percorsi alternativi che i mercanti potevano seguire per raggiungere Genova e Venezia, e avevano anche introdotto un sistema di scambio secondo il quale i cittadini abbandonavano le merci in un punto prestabilito, mentre gli addetti ai trasporti le prendevano in consegna per esportarle e viceversa. Questo sistema impediva così di danneggiare il commercio, ma era estremamente pericoloso perché le merci finivano per essere inevitabilmente delle fonti di propagazione del contagio.


Le ondate epidemiche

Nella prima metà del ‘400 erano state registrate ben quattro crisi epidemiche, alcune delle quali anche molto violente. Fra il 1399 e il 1400 per il Giubileo, le processioni della ‘devozione’ dei Bianchi8 e le guerre, l’infezione si era riaccesa rapidamente nell’Italia settentrionale per poi dilagare in tutta la penisola nel corso di pochi mesi. Si era trattato forse di una delle epidemie più pesanti: dalle testimonianze lasciate dai cronisti e da altre fonti, nell’area lombarda le notizie sono drammatiche. A Cremona la durata dell’epidemia era stata di circa 27 mesi e aveva ucciso circa 3.000 cittadini; a Como le vittime erano state 13 mila e a Bergamo 20 mila. Molto violenta anche a Milano, la peste aveva causato molte vittime;9 il duca Gian Galeazzo Visconti aveva messo in atto alcuni provvedimenti inviati al Comune cittadino per contenerla: aveva limitato i pellegrinaggi del Giubileo, aveva cercato di impedire ai Bianchi di entrare in città, ma era stato costretto a concedere almeno le processioni purché i penitenti non avessero contatti con i cittadini milanesi. Nel 1400 aveva realizzato un cordone sanitario intorno alla città predisponendo una strada che passasse a cinque miglia dalla città e a due dai borghi per i pellegrini che si recavano a Roma, organizzando lungo il tragitto ospedali forniti di vettovaglie. I provvedimenti, oltre all’espulsione degli infetti, alle guardie poste alle porte giorno e notte, all’assistenza e al controllo dei mendicanti, non erano state tuttavia sufficienti per impedire l’accendersi di terribili focolai in tutto il Ducato, alimentati anche da guerre e carestie che ne erano seguite.10

Una nuova ondata epidemica aveva interessato tutta l’Italia tra il 1422 e il 1425, originata nel Meridione per risalire sino al Nord. Nelle città lombarde si era accesa nell’estate del 1424 e il duca Filippo Maria Visconti, per evitare che i danni economici fossero ingenti, non aveva voluto imporre pesanti restrizioni, e anche se durante i mesi di agosto e settembre a Milano vi erano cittadini ricoverati nell’ospedale del Brolo, il numero delle vittime era stato lieve. In area lombarda la peste si era poi riproposta altre due volte tra il 1429 e il 1431 e tra il 1437 e il 1439, quest’ultima, in concomitanza con la guerra fra Milano e Venezia, aveva fatto una strage anche tra le fila degli eserciti.

Una ulteriore drammatica ondata proveniente dall’Asia aveva colpito l’area lombarda tra il 1448 e il 1452, e in generale tutta la penisola italiana, partendo da Venezia per diffondersi nelle grandi città, complice il Giubileo del 1450 per il quale erano accorsi a Roma numerosi pellegrini. Lodi e Piacenza erano state le prime città contagiate. Milano era stata colpita dalla peste bubbonica tra la fine del 1450 e gli inizi del 1451 e il contagio era proseguito fino al 1452, ma i danni erano stati terribili, anche a causa della guerra in atto fra la Repubblica ambrosiana e Francesco Sforza (1401-1466).11 È difficile stabilire la portata del contagio perché le fonti sono assai discordi, ma si sa per certo che alla fine del settembre 1451 si contavano circa 100 morti al giorno. Nessuna città del Ducato era stata risparmiata, e anche Cremona, una delle più fiorenti, era stata colpita da una ondata più lieve nel 1450, e da un’altra nel 1452 della quale ci occuperemo più avanti. Anche a Crema, dal 1450 al 1453, il Comune aveva assunto provvedimenti per bloccare il contagio e per assicurare l’assistenza ai malati espulsi dalla città.

Fra il 1467 e il 1468 una nuova ondata aveva colpito l’area lombarda. A Milano tra marzo e aprile 1468 erano stati individuati alcuni casi sospetti, mentre dal mese di giugno la situazione era ormai piuttosto grave e molti cittadini lasciavano le loro case per trovare rifugio altrove. Le perdite subite dalla popolazione non erano state troppo gravi, poiché dal mese di luglio la situazione era già migliorata e molte famiglie avevano fatto ritorno in città perché il contagio si era fermato.12 Una nuova epidemia si era accesa tra il 1477 e il 1479 in tutta Italia e nel resto d’Europa. A Milano era stata preceduta e unita a una terribile carestia, e le conseguenze non erano state lievi perché a distanza di pochi anni si era innestata un’altra ondata epidemica, la “peste magna” che era culminata tra il 1485 e il 1486 colpendo nell’area lombarda non soltanto Milano, ma anche Pavia, Lodi e Como. La mortalità era stata molto alta, basti pensare che a Pavia, che contava all’epoca circa 16 mila abitanti, si erano registrati circa 4.500 morti solo nel centro urbano, ai quali si dovevano aggiungere altri 1.700 nei borghi entro i Corpi Santi. I terribili effetti della ‘peste magna’ erano stati narrati dal poeta Bettino Uliciani da Trezzo (anni Quaranta del Quattrocento – 1490) nel poema intitolato “Letiologia”, un’opera di scarso valore letterario, pubblicata a Milano nel 1488, e dedicata al cardinale Ascanio Sforza, figlio del duca Francesco, ma che ricostruiva il dramma sofferto dagli abitanti delle città lombarde colpite dalla peste. Il poeta, la cui famiglia era stata sottoposta a drammatiche quarantene e aveva subito gravi lutti, ci raffigura città spopolate per la pestilenza, strade senza bambini, mercati deserti, ladri che facevano razzie nelle case dei morti, “sottrattori” che portavano via i cadaveri e li seppellivano, ma ci parla anche di devozioni popolari, di episodi miracolosi e dell’idea comune che l’epidemia non fosse altro che una punizione divina capace di purificare chi la contraeva. 13


L’epidemia di peste a Cremona del 1452

A fare da sfondo all’epidemia di peste a Cremona a metà del secolo XV c’è il conflitto fra il Ducato di Milano e la Serenissima Repubblica di Venezia. Le ostilità fra le due città nemiche erano scoppiate improvvisamente, e il 16 maggio 1452 quando i Veneziani avevano oltrepassato il confine cogliendo di sorpresa i Milanesi, la guerra si era mostrata da subito durissima per il duca. Francesco Sforza si era accampato a Quinzano tentando di proteggere dallo scontro sul campo con Venezia il grosso delle proprie forze, che non si erano ancora riprese dal primo colpo subito dal nemico nei pressi di Lodi. Nel mese di ottobre i Milanesi avevano avuto una breve ripresa nel Bresciano, ma successivamente i Veneziani si erano impadroniti di Castiglione delle Stiviere e poi avevano attaccato anche Quinzano. Il conflitto si era concluso l’anno successivo, solo quando Firenze era giunta in aiuto dello Sforza e a Venezia era rimasto solo il controllo di Crema, Bergamo e Brescia.14

La guerra con Venezia è narrata nei carteggi contenuti nei registri delle missive di Francesco Sforza, in cui si trovano molte lettere del duca inviate a Cremona che raccontano anche dell’epidemia di peste che si era sviluppata in città, e del timore del duca che l’infezione si propagasse fra i reparti del suo esercito accampato nel territorio bresciano, e che ciò potesse compromettere l’esito della guerra, e la perdita di Cremona, a cui era particolarmente legato, poiché era la città dotale della moglie Bianca Maria Visconti (1425-1468)15 sulla quale governava dal 1441. Diverse lettere del governatore e dei magistrati della città, che parlano sempre del contagio, sono conservate invece nel carteggio fra Cremona e Milano.16

L’inizio del contagio è documentato per la prima volta nella missiva dello Sforza datata 17 aprile 1452 da Milano. Il duca scriveva al governatore, il conte Giovanni da Tolentino,17 al podestà e ai magistrati della città di essere ormai stato informato “che la contagione pestifera ha incomenciato pululare in quella nostra cità, la qualcosa ene molto grave et ne havimo malcontentamento pur assay”, e perciò ordina di “cazare de fora li infecti et in fare l’altre cose neccessarie” per preservare la salute dei cittadini.18 Inoltre, essendo imminente il conflitto con Venezia, lo Sforza era preoccupato per l’andirivieni dalle porte della città di sudditi veneziani senza che gli officiali effettuassero controlli accurati, cosicché “non sapiati dove vengano, chi li manda et quello che vanno facendo, ita che siati ben chiari de tucto quello vanno agitando”. Il duca lamentava inoltre che gli officiali delle porte non rispettavano gli ordini e chiede ai suoi officiali di farsi obbedire.

Il 4 maggio Giovanni da Tolentino scriveva al duca per informarlo che negli ultimi giorni la situazione era peggiorata per l’aumento del numero degli infetti. Il governatore, preoccupato dell’andamento dei contagi, scriveva allo Sforza che “in questi dui di è multiplicando la peste qui in questa città et veduto che più è per seguirmi magiore infectione e pericolo non mettendogli guardia e advertentia a chi va e vene”. Per evitare che l’infezione si propagasse, egli chiedeva al duca di scrivere ai deputati della città per trasmettere loro gli ordini e che si preoccupasse di farli eseguire per la salute e la salvezza della città, perché questi ultimi erano piuttosto restii a metterli in pratica per la mancanza di denaro. Il governatore lo avvisava di aver ordinato di mettere le “guardie alle porte qualle havessero la cura et advertentia di non lassare entrare persona venessi di luogho suspecto” e di controllare che “quelli morbati cacciati fuora della terra non ritornassero dentro”.19

Nei giorni successivi lo Sforza aveva scritto spesso a Giovanni da Tolentino per esternare la sua grande preoccupazione per la diffusione dell’epidemia di peste ricordandogli che, per l’esperienza maturata nei mesi precedenti a Milano e nelle altre città del Ducato, solo attraverso “li ordini et bone provisioni” si poteva fermare la “peste quale pullula” in città. E si meravigliava che i reggitori di Cremona, nonostante fossero “valenti homini”, non mettessero in pratica i suoi ordini per arginare il contagio.20 In un’altra missiva del 6 maggio, sempre indirizzata al governatore, il duca scriveva che “ne rencresce et ne dole che facia quelo damno che scriviti, et ne havimo quello cordiale despiacere che potessimo havere de alcuna altra cosa”. E lo sollecitava di nuovo ad agire con ogni “solicitudine et industria” per fare in modo che “questo fuoco non vada più inanzi”, ordinando di nuovo l’allontanamento degli infetti dal centro urbano. Nella lettera il duca lamentava che “in lo mandare fora li infecti de quella cità non gli è tinuto bon modo, perché sonno mandati in loco molto vicino alla cità, et che tucta volta praticano cum quilli che non sonno infecti”, Secondo il duca, che aveva ben presente quanto fosse importante allontanare i contagiati, gli ammalati erano stati mandati in una zona troppo vicina alla città e quindi riuscivano ad avere contatti con i parenti sani.21

I carteggi testimoniano la crescente preoccupazione del governo di Milano. Francesco Sforza il 10 maggio scriveva al governatore incalzandolo per il rapido diffondersi del contagio nella sua città, che gli suscitava tanto “despiacere de core” non solo per l’amore che portava per Cremona, ma soprattutto perché voleva che si conservasse integra per il passaggio degli uomini d’arme impegnati nell’imminente guerra contro Venezia. Perciò ordinava a Giovanni da Tolentino di convocare il podestà e i magistrati affinché allontanassero i malati “nel Mezano22 et le case loro fossero inchiodate et serate che nissuno potesse pratichare dentro” perché “stando gli infecti nella cità, non po’ essere che l’uno parente non vada a veder l’altro, ad questo modo ad pericolo de affocarsi tucta quella cità”. E solo attraverso la scrupolosa osservanza di queste disposizioni, il duca sperava che presto “l’infectione se estinguerà”, e che la città avrebbe recuperato “pristina sanità”.23

Lo stesso giorno il duca scriveva anche al podestà di Cremona e ai magistrati affinché si riunissero e insieme a Giovanni da Tolentino mettessero in pratica le “provisioni necessarie” per “extingure quello fuocho de infectione”. E li invitava a non prendere come esempio i reggitori di Pavia, che non avevano eseguito gli ordini e non avevano mandato gli ammalati di peste fuori dalla città, e così “se appizzò tanto fuoco in quella città, como sapiti, perché è molto meglio – come scrive lo Sforza – ne morano dece che cento”.24

Ancora il 13 maggio il duca, informato dal suo cancelliere sullo stato dell’epidemia, scriveva al governatore di aver dato ulteriori istruzioni relative ai provvedimenti da assumere per contenere la pestilenza, e lo invitava ad essere “actento, vigile et diligente” e di tenerlo costantemente informato sull’andamento dei contagi. Ma la preoccupazione più grande del principe era sempre la mancanza di un controllo efficace alle porte della città; essendo infatti imminente lo scontro con la Serenissima, i suoi informatori lo avevano avvisato che molti soldati “vengono dentro la città et vìnose mischiando per le case et praticando et imbratando l’acqua”. Il timore è dunque quello che gli uomini d’arme si mescolassero con i cittadini e si infettassero spargendo il morbo anche fra le fila dei soldati. Un timore non del tutto infondato poiché anche il soldato Giovanni Tegazzo era già morto di peste.25

Lo scambio di lettere proseguiva anche nei mesi successivi, e il duca manifestava sempre un grande disappunto nei confronti del podestà e dei magistrati di Cremona, rimanendo convinto che sia con la speranza “in la clementia de Dio” e sia “servando li boni ordini” si potesse salvare la città dal contagio.26 Dopo l’estate il duca incarica il famiglio ducale Giacomo da Camerino di gestire le attività di contenimento della peste, esautorando di fatto il podestà. Nella lettera del 30 settembre il duca scriveva, infatti, da Leno: “Più volte havemo scripto a quello nostro podestà che debia fare observare li ordeni posti in quella nostra città circa ’l facto dela peste et servare ogni modo et via ad cio ché essa città se conservi sana. Pare ch’el habia pocha cura de questo facto, donde quella città vene ad pezorare ogni dì cum nostro grandiximo despiacere. Però volemo et commettiamo a te che, da mò innanzi, habii el carico de questa cosa et facci observare li dicti ordeni per tal modo che essa città se reduca ad bona convalescentia et non pezore più como ha facta fino qui”.27

Anche il castello di Santa Croce di Cremona era stato colpito dal contagio del 1452. Il 30 giugno l’ufficiale sanitario, Michele Trombetta, aveva informato il duca che fra i morti di peste del giorno precedente figurava anche il fratello del giardiniere del castello Corradino [de Bavera] che era morto con i segni del contagio in una camera delle stalle del castello.28 Il 6 ottobre sempre l’officiale sanitario scriveva a Bianca Maria Visconti per informarla che nella lista dei malati vi era anche la moglie di Scaramuzzino dall’Aquila, che risultava malata “de male suspepcto”;29 nello stesso giorno le annunciava anche la morte della figlia di Giovanni Baito, compagno del castellano, e che si erano contagiati anche i tre figli di Giovanni Ferrari.30 Qualche giorno dopo, scrivendo sempre alla duchessa, le confermava che anche Martino Barbavara e Antonio da Castelleone si erano ammalati.31 L’unico rimedio a cui il castellano poteva ricorrere per contenere l’epidemia e salvare così la fortezza di Santa Croce dal contagio era quello di allontanare i contagiati, trasferendoli in campagna per l’isolamento. Tuttavia, i contagi non si erano placati: ancora il 2 novembre l’officiale sanitario, nel comunicare la lista dei malati a Francesco Sforza, informava anche che era morta con “signi negri” la figlioletta di soli 4 anni di Corradino Bavera “hortolano del ghiardino de questo vostro castello” e qualche giorno più tardi anche l’altra figlia, la moglie e infine il giardiniere stesso.

Il contagio si era propagato anche nelle prigioni della fortezza dove erano rinchiusi diversi uomini coinvolti nello scontro fra Milano e Venezia. Dai primi giorni di settembre nelle carceri del castello era infatti detenuto Pietro Ungari, compagno del conestabile della rocchetta di Porta San Luca e forse accusato di essere una spia, che pareva si fingesse ammalato “per passare tempo et per longare la vita sua”,32 mentre l’officiale sanitario scriveva al duca per accertare invece che il prigioniero era stato contagiato.33 Nell’incertezza, lo stesso giorno Giovanni Giupano, cancelliere ducale, scriveva al duca di essere stato al castello e che, mentre i castellani sostenevano che il prigioniero fosse malato, Ungari “ha fincto havere di quello male pensando essere caciato di pregione et liberato” e aveva simulato anche la morte “de che li castellani mandono per lo sotteratori dal morbo per farlo portare via, et intrando uno di loro in la prigione per logarlo per strasinare fora, colui cognoscendolo, gli disse: Portame pur via, ch’io te donarò uno ducato!”. Naturalmente il sotterratore lo aveva lasciato nella cella e il prigioniero era stato inviato dal podestà per essere interrogato, secondo le volontà dello Sforza.34 Il 20 settembre il podestà informava il duca che Ungari purtroppo era stato trasferito in casa sua e che, dovendolo interrogare si era accorto che era molto debole e “che non molto bene la lingua potea sciogliere e pocho s’intendeva”, perciò non lo aveva fatto neppure torturare “parendomi mezo morto”; il prigioniero aveva con fatica confessato le sue colpe, ma il giorno dopo era stato trovato morto “con segno de morbo sotto l’braccio”. Con tanto rammarico il podestà chiudeva la sua lettera affermando di sentirsi ingannato dai castellani che gli avevano così portato “la contagione nella casa” tra la sua famiglia”.35

Oltre all’allontanamento degli ammalati nelle campagne, si conoscevano anche rimedi, ritenuti efficaci a quel tempo, per la sanificazione gli ambienti delle dimore aristocratiche. L’officiale sanitario il 24 novembre scriveva al duca che ormai nel castello da 39 giorni non vi era più alcun infetto, e che aveva provveduto a “mondificare et sanare tute le camere quali herano infette”, comprese le stanze del duca e della duchessa, sanificate con “fuochi et fumi, como lo incenso”.36 E il 30 novembre lo Sforza ordinava al famiglio ducale, Giacomo da Camerino, di interpellare i migliori medici della città per predisporre una nuova “purgatione del focho, perfumi e altre aspersioni” nelle camere del castello in cui si sospettava che il morbo fosse ancora presente, predisponendo, anche contro il parere negativo dei medici, che gli ambienti solitamente abitati dalla famiglia ducale venissero puliti, profumati, aspersi con buon aceto e affumicati, e che venissero profumate anche le altre zone non sospette di contagio. Scriveva infatti il duca: “volimo che subito tu habbi consilio da valenti medici di quella nostra cità, s’el fosse bene et utile affare altra purgatione de focho, perfumi et altre aspersioni ale camere che sonno reputate sospecte in lo nostro castello. Et quanto te consiliaranno, faralo fare indilate, ma quando ben dicisseno non bisognare, fa’ omnino far focho, spazare, perfumare et aspergere de bono aceto le camere de dicto castello quale tenimo per nostro habitare, et faralo presto. Et generaliter farai perfumare et ordinare tucte l’altre che non sonno subspecte”.37 Il castello era rimasto comunque in quarantena, anche quando nel novembre 1452 lo Sforza mandava a Cremona il condottiero Bartolomeo Colleoni (1400-1475) – che fra il 1451 e il 1454 aveva abbandonato la condotta con Venezia e si era messo al servizio dello Sforza – per riprendersi dai campi di battaglia e da un’infermità.38 Quasi con certezza il capitano di ventura non era stato ospitato con gli onori del suo rango in Santa Croce, ma in un’altra abitazione in città forse per proteggerlo dal contagio.

Nel mese di dicembre l’epidemia di peste sembrava ormai arginata. È lo stesso Francesco Sforza che scriveva il 20 dicembre dalla città di Cremona al marchese di Mantova, Ludovico Gonzaga (1412-1478), per informarlo che Antonio Trecchi, tesoriere ducale, aveva mandato un messo per comprare tessuti nella sua città “et quelli de Mantoa non hanno vogliuto lassare intrare il suo messo per cagione della peste, quale se dice esser in questa cità; et perché questa cità è sanissima e più de xii dì passati non c’è morto, nì infirmato alcuno de peste, et nui ancora siamo qui con madonna Biancha et li altri nostri”.39 E ancora il 13 maggio 1453 l’officiale sanitario, Michele Trombetta, scriveva a Bianca Maria Visconti che il medico Nicola Asti garantiva che “l’haiere è buono et sano et senza coruptione veruna captiva” e quindi la rassicurava che poteva recarsi in città senza alcun pericolo di contagio, aggiungendo che nessun povero “ni femine povere vengano in castello ad praticare ni parlare como le done de la Illustrissima Signoria Vostra secondo altre fiate sono usate a dimandare per elemosina” promettendole ancora di disinfettare le stanze con aceto e incenso.40


Diffusione del contagio e mortalità

Non sappiamo da quale momento Francesco Sforza abbia cominciato a ricevere informazioni quotidiane sul numero degli ammalati e dei morti in città, ma è certo che dal 28 giugno fino al dicembre 1452 l’officiale sanitario, Michele Trombetta, aveva iniziato a inviare dispacci a Milano contenenti gli elenchi, simili a quelli che ancora si conservano per Milano,41 ma con una maggiore ricchezza di particolari. Nelle lettere l’officiale sanitario registrava non solo gli infettati e i deceduti per peste, ma anche l’età, il sesso, la vicinia di residenza, spesso anche il nome del capofamiglia, il grado di parentela, e in moltissimi casi anche la professione. Queste fonti sono di eccezionale importanza poiché permettono di ricavare molte informazioni sull’andamento del contagio che aveva colpito la città di Cremona, anche se non si ha la certezza che i carteggi siano stati conservati nella loro interezza, e neppure che tutti i cittadini siano stati denunciati alle autorità competenti.42

Da uno studio di questi documenti, condotto da Giuliana Albini, risulta che si erano contagiati 486 cittadini, di cui 312 erano morti, mentre dei restanti 174 contagiati non si ha notizia del decesso e perciò si possono considerare come sopravvissuti alla malattia. Per 295 persone scomparse è possibile risalire anche alla porta di residenza: 154 appartenevano porta Pertusio, 79 a Porta Ariberti, 48 a Porta San Lorenzo, 14 a Porta Natale. Le aree urbane in cui la peste aveva mietuto il maggior numero vittime erano senza dubbio quella di Porta Pertusio, che era la più densamente popolata fra le quattro porte cittadine, e fra le vicinie con il maggior numero di morti troviamo quella di San Sepolcro, e quella di Porta Ariberti, dove il maggior numero di decessi era distribuito fra le vicinie di Sant’Apollinare, San Bassano, San Paolo e Sant’Egidio. Le zone maggiormente colpite dall’epidemia risultavano dunque essere quella nord/orientale e quella sud-occidentale, che erano nello specifico le aree artigianali della città, mentre nei quartieri in cui risiedevano i ceti medio-alti il numero degli infettati sembrava essere assai lieve, forse perché i membri del patriziato urbano si erano ritirati nei loro poderi in campagna.43

Gli elenchi dei morti e degli ammalati suggeriscono altri dati significativi; ad esempio, è possibile stabilire che il picco dei decessi si era registrato nel mese di luglio, per cominciare a diminuire a partire dalla tarda estate con l’approssimarsi della stagione fredda. Nella maggior parte dei casi gli infettati morivano nell’arco di due giorni dal momento in cui venivano denunciati, e nel caso specifico dell’epidemia di peste a Cremona, le donne, pur avendo maggiore rischio di infettarsi rispetto agli uomini (circa il 60% dei contagiati), avevano buone possibilità di guarire e di resistere meglio al male. Sappiamo inoltre che il morbo si era diffuso soprattutto fra i ceti più bassi, soprattutto quelli addetti alle produzioni tessili, specie dei fustagni, e quelli addetti ai trasporti, i cosiddetti “careteri” e “brentadori”, cioè i carrettieri e i trasportatori di vino.

La “contagione pestifera” fra la fine di giugno e dicembre aveva causato circa 300 vittime, ma il numero potrebbe essere più elevato poiché non si ha la certezza che gli elenchi siano completi, anche perché mancano i dati dei mesi aprile, maggio e tutto giugno. Un numero sicuramente non elevato di vittime, se si tiene conto che la città al tempo poteva grosso modo contare circa 16 mila abitanti, e circoscritto ad alcune aree della città più densamente popolate e produttive, che tuttavia poteva mettere in crisi una città fiorente come Cremona.44





Poco sappiamo infine delle paure e delle emozioni45 che gli abitanti percepivano vivendo in una città colpita da una epidemia di peste nel tardo Medioevo, epidemia che ormai era diventata endemica e si presentava a cicli e scadenze periodiche, accompagnata da guerre e terribili carestie. Nei carteggi fra Milano e Cremona emergono episodi che narrano le vicende di poveri cittadini che restavano imbrigliati nelle maglie o del potere o della burocrazia locale. Si pensi, ad esempio, al caso del famiglio ducale, Alessandro da Foligno, che il 10 giugno 1452 aveva scritto al duca affinché lo liberasse dalla quarantena forzata in cui era stato posto quando i deputati alla conservazione della sanità di Cremona avevano stabilito che tucti quilli stantiano in quella stantia debano essere inchiodati in casa iazò non possano praticare per la città, et che non inbractassero delle altre persone” poiché nella sua casa, in cui viveva con la famiglia, la moglie di un certo Pietro Marino, tessitore di panni di lana, aveva avuto la febbre per tanti giorni, e si sospettava avesse contratto la peste. 46 Situazione analoga quella del cittadino cremonese Battista Ricagni che “fo tolto per suspecto et serato in casa”, tuttavia “luy may non è morto nè altra persona in casa sua, et pur anchora non pò usire de casa, pur l’è tenuto serrato”, e che il 6 luglio si rivolgeva al duca per essere liberato dopo 50 giorni di prigionia in casa.47





Emblematico anche il triste caso di due giovani sposi, Batistino da Terzona e la figlia orfana di Tommasino de Petrizanni, che si erano uniti in matrimonio e lo avevano anche consumato di nascosto, sebbene la famiglia della giovane si fosse opposta e il duca avesse imposto il divieto, mentre la peste aveva colpito anche la loro casa. Il 29 novembre 1452 Francesco Sforza scriveva infatti al famiglio ducale Gabriele da Narni imponendogli di recarsi insieme al podestà alla casa della sposa disobbediente per prelevarla e rinchiuderla in un monastero, dopo aver fatto stilare dal notaio un elenco dei beni lasciati in eredità dal padre.




Poiché egli era riluttante ad eseguire l’ordine perché “la caxa della dicta pucta è amorbata” il duca affermava che “oramai debono essere parechi dì che in quella casa fo el morbo, siché debbe essere passato via suspecto, et che sia el vero, tu vedi che costoro non hanno havuto paura né dubbio alcuno a far contrahere questo matrimonio et deinde consumarlo”. Il destino crudele si era accanito non solo sulla sposa-monaca, ma anche sul giovane sposo che, come aveva ordinato il duca, doveva essere incarcerato insieme ai suoi parenti nelle prigioni del castello e della rocchetta di San Luca.48 

Durante un’ondata di peste successiva, forse quella del 1468, anche le monache mandate da Milano per fondare il monastero di Santa Monica legato all’Osservanza, avevano patito gli effetti drammatici del contagio. Le agostiniane, fra le quali vi era Francesca Bianca Sforza, figlia naturale del duca Francesco, scrivevano alle autorità religiose perché, vivendo in clausura e di sola carità “mendicando ali ussci deli pietosi citadini”, speravano di ricevere qualche aiuto, poiché Cremona era infuocata da una epidemia di peste e “le persone sono comosse et impaurite et secondo che possiamo prendere elligenda la fugha per suo siroppo et medicinale remidio”. Alle religiose venivano così a mancare le elemosine quotidiane e così temevano di “morire in calamitade et miseria et essere cruciate da duplici martiri, cioè di pesta et de fame, però che a nui non he licito discorrere per altri privati loci sciando poste in clausura”, per questo chiedevano di intercedere presso i magistrati della città affinché concedessero un poco di frumento, vino e legna “per fare focho” e cuocere il pane.49



Conclusioni

Le fonti prese in considerazione documentano come prìncipi e magistrati di una città del tardo medioevo come Cremona fossero già in grado di mettere in atto provvedimenti capaci di arginare e limitare un contagio, spesso accompagnato da guerre e carestie. Conoscenze pratiche, maturate durante le diverse ondate di epidemie di peste che avevano colpito l’Italia dopo il 1348. Fra le più diffuse e forse efficaci vi erano i controlli alle porte cittadine per impedire l’ingresso di persone provenienti dai luoghi sospetti, l’introduzione di officiali sanitari addetti alla sorveglianza della salute pubblica, l’allontanamento degli ammalati in zone lontane e difficilmente raggiungibili da familiari e conoscenti, la chiusura delle case abitate da gente sospettata di essere infetta, il controllo su poveri e mendicanti per evitare che circolassero per le strade spargendo il morbo ovunque. Non sempre Milano riusciva ad imporre l’uso di misure drastiche ai podestà e ai magistrati delle città del Ducato, i quali erano sempre riluttanti a metterle in pratica, poiché a loro competevano le spese per i medici, per gli officiali che effettuavano i controlli, per i “sotterratori” che si occupavano di trasportare i cadaveri e per l’assistenza degli ammalati allontanati dalla città o chiusi nelle loro abitazioni che, come abbiamo visto, potevano morire sia per il morbo, che nella peggiore delle ipotesi per la fame. Un’ epidemia di peste che si abbatteva sugli abitanti di una città poteva dunque bastare a minare i fragili rapporti fra il governo centrale e le aree periferiche di uno stato, nel difficile equilibrio politico dell’Italia nella metà del XV secolo.  



Bibliografia

1. Nukhet Varlik. Plague and Empire in the Early Modern mediterranean world: the Ottoman experience, 1347-1600. Cambridge: Cambridge University Press, 2015.

2. Lo studio è nato da un progetto, organizzato in un ciclo di incontri, dedicato al tema “Epidemie in città. Storie, rimedi e arte” promosso dalla Società Storica Cremonese nel mese di gennaio 2021.

3. Le epidemie di peste in area lombarda sono state studiate da Giuliana Albini, Guerra, fame, peste. Crisi di mortalità e sistema sanitario nella Lombardia tardomedioevale, Bologna, Cappelli editore, 1982. Per la politica sanitaria del Ducato di Milano si vedano le pp 63-102.

4. Dizionario Biografico degli italiani (d’ora in poi DBI), alla voce Gian Galeazzo Visconti.

5. DBI, alla voce Filippo Maria Visconti.

6. In età medioevale il Mezzano designava isole fluviali o territori compresi fra due rami del fiume; per quanto riguarda la città di Cremona si trattava probabilmente di un’area poco accessibile nella zona del fiume Po, che già era stata utilizzata durante l’epidemia del 1452 (cfr. nota 17).

7. Albini cit., pp 82-83.

8. Si trattava di un movimento religioso popolare dei penitenti, chiamati Bianchi, che percorse l’Italia nel 1399. Migliaia di uomini, donne e giovani, vestiti di panni bianchi, percorrevano in staffette di nove giorni seguendo un crocifisso per raggiungere le città vicine, attraversando così tutta l’Italia, digiunando, flagellandosi e cantando inni, in particolare la dolente lauda “Misericordia, eterno Dio”. Il diffondersi della peste accentuò il tono ancor più drammatico del fenomeno, poiché i penitenti nutrivano la speranza della salvezza sia fisica che spirituale (Stefania Giraudo, La devozione dei Bianchi del 1399: analisi politica di un movimento di pacificazione, in Reti Medioevali, 14, I (2013), Firenze University Press, p. 167).

9. Risulta molto difficile ricostruire il numero complessivo della popolazione relativa alle città lombarde nel XV secolo. Per quanto riguarda Milano si può supporre che intorno al 1460 vivessero 55-60 mila persone, al 1492 circa 85 mila, mentre per Cremona Albini parla di circa 16 mila abitanti nella metà del XV secolo (Albini cit., pp 162-163 e 154-157.

10. Albini cit., pp 22-24.

11. DBI alla voce Francesco Sforza.

12. Albini cit., pp 30-31.

13. DBI, alla voce Bettino da Trezzo.

14. DBI, alla voce Francesco Sforza.

15. DBI, alla voce Bianca Maria Visconti.

16. Archivio di Stato di Milano (d’ora in poi ASMi), Sforzesco, Registri delle Missive, 7 e Carteggio Visconteo-Sforzesco, bb 721, 722, 723 e 724. Diverse lettere sono registrate in Il castello di Santa Croce a Cremona nei documenti di età sforzesca (1441-1535), a cura di Gianantonio Pisati, Monica Visioli, Cremona 2016.

17. DBI, alla voce Giovanni da Tolentino; è il condottiero Giovanni Mauruzzi, nato a Tolentino nei primi anni del XV secolo, legato al capitano di ventura Francesco Sforza, che lo ha seguito anche nella conquista di Milano. Nel 1443 si era unito in matrimonio con Isotta Sforza, figlia naturale dello Sforza. Quando Francesco divenne duca, Giovanni aveva ottenuto il titolo di conte ricoprendo successivamente diversi incarichi politici e militari.

18. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, c. 103 v.

19. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 721, n. 90.

20. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 485.

21. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 487.

22. Cfr. nota 5.

23. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 494.

24. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 495.

25. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 504.

26. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, nn. 544, 639, 712.

27. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 1167.

28. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 721.

29. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

30. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

31. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

32. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 723.

33. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

34. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

35. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 722.

36. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 723.

37. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 723.

38. DBI, alla voce Barolomeo Colleoni; ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 1664.

39. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 2079.

40. ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 724.

41. Albini cit., pp 158-202.

42. Le lettere contenenti gli elenchi sono conservate in ASMi, Carteggio Visconteo-Sforzesco, b 721-723.

43. Albini cit., pp 147-149.

44. Albini cit., pp 154-157.

45. Per la storia delle emozioni si veda Barbara H. Rosenwein, Generazioni di sentimenti. Una storia delle emozioni, 600-1700, Roma, Viella, 2016.

46. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 536.

47. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 536.

48. ASMi, Sforzesco, Registri delle Missive, 7, n. 1850.

49. ASMi, Comuni, b. 30; la lettera è senza data.