“Raccomandazioni” per la prevenzione e il controllo delle infezioni da Clostridioides difficile

La forza delle raccomandazioni e la qualità delle evidenze sono riportate nell'allegato A
“Tabella sinottica delle Linee guida consultate”.
 


1. Infezione da Clostridioides difficile



1.1 Introduzione

Clostridioides difficile (CD) è il nuovo nome assegnato al Clostridium difficile nel 2016.8 La storia del Clostridium difficile inizia quando nel 1935 Ivan C. Hall e Elizabeth O’Toole9 isolarono in materiale fecale di neonati un batterio che venne denominato inizialmente Bacillus difficilis, per la difficoltà incontrata nel suo isolamento e per la sua estrema lentezza di crescita in coltura. Successivamente il microrganismo fu assegnato al genere Clostridium per le caratteristiche fenotipiche che lo rendevano simile agli altri membri della famiglia: anaerobio, Gram-positivo, sporigeno. Divenne quindi a tutti gli effetti Clostridium difficile.

Con l’avvento delle metodiche molecolari, cominciarono ad essere studiate le diversità filogenetiche del genere Clostridium, apportando sempre nuove conoscenze su particolari sequenze geniche importanti per la classificazione del genere. In particolare, l’appartenenza al “rRNA cluster I” fu riconosciuta come quella caratterizzante il genere Clostridium vero e proprio. Nel 2015 Lawson e Rainey10 avanzarono la proposta di circoscrivere il genere Clostridium al C. butyricum e specie correlate, tutte appartenenti al suddetto “cluster I”. Delle 238 specie e sottospecie appartenenti al genere, solo meno di 80 potevano essere considerate Clostridium in senso stretto. Tra gli esclusi il C. difficile, compreso nel cluster XI.

Una ulteriore complicazione si presentò quando, sempre sulla base di studi molecolari, venne proposto che i microrganismi appartenenti al cluster XI dovessero essere inclusi in una nuova famiglia denominata Peptostreptococcaceae. Yutin e Galperin,11 confermando l’appartenenza del Clostridium a questa famiglia, proposero di coniare il nuovo genere del Peptoclostridium per mantenere un legame con la precedente denominazione.

Passare dal Clostridium difficile al Peptoclostridium difficile si rivelò una “mission impossible”. I termini Clostridium difficile, C. diff. e tutti gli acronimi ad essi collegati (CDI – C. difficile infection; CDAD – C. difficile associated diarrhea) avrebbero dovuto essere modificati in PDI e PDAD, creando confusione con altri simili, associati ad altri tipi di patologie (è nota la predilezione anglosassone per acronimi di ogni specie). Adottare un nome decisamente diverso avrebbe inoltre comportato danni economici rilevantissimi per la necessità di aggiornare materiali, imballaggi, marchi di prodotti, nomi registrati, tecnologie informatiche, ecc., oltre allo spreco di tutto il materiale esistente, non più utilizzabile. Le aziende commerciali avrebbero dovuto modificare cataloghi, siti e pagine web; gli ospedali aggiornare test diagnostici, reportistica, codici farmaceutici ed amministrativi, protocolli, materiali formativi e divulgativi, e così via. Ci sarebbero voluti anni per un cambiamento completo e definitivo, e, in ambito clinico, l’inevitabile confusione nella terminologia avrebbe potuto comportare molteplici effetti negativi sull’assistenza e sulla cura dei pazienti.

Nel 2016 la definitiva riclassificazione del C. difficile fu possibile grazie alla controproposta di Lawson, et al.12 di scegliere piuttosto un nuovo nome che iniziasse con la C, anzi meglio ancora con “Clost” in modo da poter continuare ad utilizzare le abbreviazioni C. difficile, C. diff. e tutti gli acronimi collegati; le più modeste modifiche necessarie su documenti, marchi, imballaggi, ecc. sarebbero state accettabili. La loro proposta di denominare il nuovo genere “Clostridioides” sembrò subito la più plausibile, tanto più che il suffisso -oides, derivante dal greco eidos che significa forma, aspetto, richiamava la somiglianza del nuovo genere con il Clostridium.

CD è un bacillo Gram positivo, anaerobio, sporigeno, largamente diffuso nell’ambiente e presente nel tratto intestinale degli animali e dell’uomo. Anche se letale in un certo numero di specie a causa della produzione di una esotossina, era solo occasionalmente isolato nell’uomo, in cui il suo ruolo di patogeno era considerato irrilevante.13 A seguito della introduzione di clindamicina, antibiotico ad ampio spettro con significativa attività anti-anaerobi, la colite divenne una seria complicanza associata al trattamento.14 Prima di allora, Staphylococcus aureus era considerato il principale agente eziologico di colite antibiotico-associata.15 Quando Staphylococcus aureus venne escluso come causa di colite clindamicina-associata, iniziò una gara per identificare l’agente eziologico responsabile. Bartlett et al. furono i primi, nel 1978, a suggerire CD tossigenico come causa di colite clindamicina-associata.16 Negli ultimi tre decenni l’incidenza di infezioni da Clostridioides difficile (ICD) è aumentata in tutto il mondo ed è diventata la più comune causa di infezione nosocomiale.17 Al contrario di precedenti studi epidemiologici che consideravano l’ICD principalmente acquisite in ospedale, esse sono ora una delle principali cause di diarrea in comunità, compresi i pazienti più giovani e quelli che non presentano fattori di rischio per ICD, come una precedente ospedalizzazione e una recente esposizione ad antibiotici.18 Tra i diversi determinanti dell’aumento dell’incidenza, morbilità e mortalità delle ICD, l’emergenza e la diffusione di ceppi ipervirulenti di CD hanno sicuramente svolto un ruolo molto rilevante.19

In ambito clinico, CD è responsabile di diverse tipologie di infezioni di differente gravità: da diarrea lieve a gravi complicanze come colite pseudomembranosa, megacolon tossico, perforazione intestinale, sepsi e morte.20 Le manifestazioni cliniche gravi, alle quali soprattutto si associa un elevato rischio di mortalità, sono più frequenti se l’infezione è sostenuta da ceppi iper-virulenti, caratterizzati da resistenza ai fluorochinoloni, produzione aumentata di spore, maggiore produzione di tossine, maggior percentuale di recidive.21,22

CD è in grado di sopravvivere in una varietà di condizioni ambientali per la formazione di spore, che rappresentano la principale via di trasmissione. L’ICD sintomatica si instaura nel colon quando le spore di CD si trasformano nella forma vegetativa, che produce due principali esotossine, l’enterotossina A e la citotossina B, responsabili degli effetti patogeni di CD. Queste tossine inattivano i membri della famiglia Rho della guanosina trifosfatasi (Rho GPTasi), determinando la produzione di citochine e chemochine, afflusso di neutrofili, morte delle cellule epiteliali e rottura definitiva della barriera mucosa intestinale.23

In aggiunta alle tossine A e B, alcuni ceppi di CD associati a casi gravi di colite producono una terza tossina, denominata tossina binaria (CDT).24

Uno degli aspetti critici delle ICD è la frequenza di recidive, che compaiono in una elevata percentuale di casi anche in pazienti trattati correttamente. In genere la recidiva compare entro 4-8 settimane dal termine della terapia antibiotica.25

La colonizzazione asintomatica è la condizione nella quale CD viene isolato in assenza di sintomi d’infezione. È stato sostenuto che i pazienti asintomatici colonizzati non progrediscono in infezione in quanto sono in grado di sviluppare una risposta immunitaria di tipo umorale nei confronti della tossine.26 Tuttavia questi pazienti rappresentano un serbatoio d’infezione e quindi un rischio per gli altri.16-28
La prevalenza di colonizzazione asintomatica varia in differenti gruppi di pazienti: 18-90% nei neonati e bambini sani, 0-15% negli adulti sani, 0-51% negli anziani ospiti in case di cura, 0,6-50% nei pazienti ospedalizzati, 0-13% negli operatori sanitari.29



1.2 Epidemiologia


1.2.1 Prevalenza, incidenza, morbilità e mortalità

CD è la più comune causa di diarrea infettiva in ambito sanitario. In 711 ospedali per acuti di 28 stati partecipanti al National Healthcare Safety Network (NHSN) dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) nel 2010 è stato registrato un tasso di ICD correlate all’assistenza sanitaria di 7,4 (mediana 5,4) per 10.000 giorni-paziente.30

Dai dati dell’Emerging Infections Program (EIP)31 dei CDC nel 2011, negli Stati Uniti, sono stati stimati 453.000 casi di ICD, con un’incidenza di 147,2 casi/100.000 persone.32 L’incidenza era più alta tra coloro che presentavano età superiore ai 65 anni, nelle donne e nei bianchi. Dei 453.000 casi 293.300 (64,7%) erano da considerarsi correlati all’assistenza sanitaria, di questi il 37% era insorto in ospedale, il 36% in strutture di assistenza a lungo termine (long-term care facilities, LTCFs) ed il 28% in comunità (paziente ambulatoriale o dimesso dall’ospedale da ≥3 giorni o pernottamento in un centro di accoglienza nelle 12 settimane precedenti). Dei 159.700 casi insorti in comunità (non pernottamento in un centro di accoglienza nelle precedenti 12 settimane) l’82% era correlato all’assistenza sanitaria ambulatoriale; quindi, la stragrande maggioranza (94%) dei casi di ICD era correlata all’assistenza sanitaria.32,33

In un’indagine di prevalenza delle infezioni correlate all’assistenza sanitaria (ICA), condotta dall’EIP nel 2011, è emerso che CD è il più comune patogeno responsabile delle infezioni riscontrate in 183 ospedali: 61 su 504 (12,1%).34

I dati di dimissione ospedaliera mostrano che negli Stati Uniti le diagnosi di ICD hanno raggiunto il valore più alto tra il 2011 e il 2013.35

I dati dell’EIP suggeriscono che nelle LTCFs il tasso di colonizzazione e infezione da CD è alto; più del 20% di tutte le ICD identificate nel 2011 ha avuto inizio nelle LTCFs.32 Inoltre nel 2012 sono stati stimati 112.800 casi di ICD con esordio in LTCFs 36; il 57% di questi era stato dimesso dall’ospedale nell’ultimo mese. Al contrario, nel 20% delle ICD insorte in ospedale erano interessati pazienti che avevano risieduto in LTCFs nelle ultime 12 settimane.37

Dal 2000 si è osservato un considerevole incremento del numero di ICD con aumentata morbilità, mortalità e costi attribuibili, sia in nord America che in Europa. Tali cambiamenti epidemiologici sono stati principalmente attribuiti all’emergenza di nuovi ceppi ipervirulenti, per primo il ribotipo 027, responsabile di numerosi outbreaks in nord America ed Europa, e, in misura minore, il ribotipo 078.38 Prima del 2000 la mortalità attribuibile a ICD era <2%.39 Dal 2000 la mortalità attribuibile a ICD è risultata essere più alta, sia durante i periodi endemici (da 4,5% a 5,7%) che epidemici (da 6,9% a 16,7%).40 Tuttavia uno studio condotto in 6 ospedali canadesi ha valutato i casi di ICD nel 2006-2007 e ha rilevato una mortalità attribuibile dell’1,7%.41 Secondo i dati dell’EIP nel 2011 il numero stimato di morti entro 30 giorni dalla diagnosi di ICD negli Stati Uniti era 29.300.32

I costi attribuibili a ICD rappresentano un onere considerevole per il sistema sanitario. Alcuni studi hanno dimostrato che il costo attribuibile a ICD in ospedali per acuti è pari a 3.427-9.960 dollari per episodio, con un costo annuo stimato di 1,2-5,9 miliardi di dollari.40

Da gennaio 2016 l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) coordina la sorveglianza di ICD negli ospedali per acuti dei Paesi europei.6 Nel 2016 20 Paesi europei, per un totale di 556 ospedali, hanno segnalato 7.711 casi di ICD, 5.756 dei quali (74,6%) erano correlati all’assistenza sanitaria, 1.955 (22,4%) erano acquisiti in comunità; nel 44,9% dei casi era interessato il sesso maschile e 75 anni era la mediana dell’età. L’incidenza di ICD correlate all’assistenza sanitaria era di 2,9 casi per 10.000 giorni-paziente, quella dei casi acquisiti in comunità di 0,8 casi per 10.000 giorni-paziente. Seicentoundici dei 7.711 (7,9%) casi segnalati erano recidive; il 16,7% dei casi avevano presentato una complicanza: ricovero per caso di comunità, ricovero in unità di cura intensiva, chirurgia per megacolon tossico o decesso. La mortalità attribuibile a ICD era 3,9%. L’85,6% dei casi di ICD esordiva nel medesimo ospedale in cui veniva diagnosticato, mentre per il 7,4% l’esordio avveniva in un altro ospedale e per il 2,1% in LTCFs.42 


1.2.2 Tipi di ceppo e cambiamento epidemiologico

Nei primi anni 2000 l’emergenza del ceppo virulento ed epidemico ribotipo 027 ha determinato maggiori incidenza, gravità e mortalità delle ICD, ed epidemie in tutto il nord America,43,44 Inghilterra,45,46 parte dell’Europa 47,48 e Asia.49

Gli isolati più recenti del ceppo 027 sono molto più resistenti ai fluorochinoloni rispetto ai ceppi storici dello stesso tipo; questa è probabilmente la conseguenza dell’aumentato uso di fluorochinoloni registrato in tutto il mondo.44

I pazienti infettati dal ceppo epidemico 027 hanno presentato una ICD più severa e con peggior prognosi rispetto ai pazienti infettati da altri ceppi.41,43,50

Dall’emergenza e diffusione del ceppo 027, recenti dati riferiti all’Europa suggeriscono che la prevalenza di questo ceppo è in riduzione. In Inghilterra il ribotipo 027 si è ridotto significativamente tra il 2007 e il 2010, passando da una prevalenza del 55% al 21%, coincidente con una significativa riduzione dell’incidenza di ICD e della sua mortalità. La riduzione della prevalenza del ribotipo 027 è stata probabilmente conseguenza della significativa riduzione dell’utilizzo di fluorochinoloni nel medesimo periodo.51

La continua tipizzazione molecolare ha consentito il rilevamento di ceppi emergenti di CD con nuovi fattori di virulenza, nuovi fattori di rischio e nuovi patterns di antibiotico-resistenza. In Olanda è stato isolato un ceppo virulento, il ribotipo 078; la sua prevalenza è aumentata dal 2005 al 2008, le sue ICD si sono dimostrate severe come quelle del ribotipo 027, ma interessavano persone più giovani ed insorgevano prevalentemente in comunità.52 Nella relazione epidemiologica annuale 2016-2017 dell’ECDC 14 dei 20 ribotipi più comunemente segnalati erano Clade 1*, incluso il più comune ribotipo 014/020 (16,8%). Il ribotipo 078 (Clade 5) è stato più frequentemente segnalato da Belgio, Cechia, Irlanda e Paesi Bassi (7-11% dei casi). Il ribotipo 027, noto per la sua ipervirulenza, è stato il terzo ribotipo più frequentemente segnalato nel 2016-2017 e particolarmente diffuso in Ungheria (67,6%), Polonia (63,0%) e Slovenia (44,4%). Per quanto concerne l’Italia, dal 2009 al 2018, sono stati tipizzati 980 ceppi e identificati 100 ribotipi con predominanza dei ribotipi 018 e 607 (dati dell’ISS).


* La struttura della popolazione di C. difficile è costituita principalmente da cinque cladi filogenetici designati da 1 a 5. Alcuni genotipi del clade 5 sono associati e ceppi altamente patogeni. 


1.2.3 ICD in comunità e popolazioni speciali ad elevato rischio

Nel contesto dei cambiamenti epidemiologici delle ICD in ambiente ospedaliero dei primi anni 2000, alcuni dati evidenziano anche un aumento dell’incidenza di ICD in comunità e in persone sane, in precedenza a basso rischio, comprese le donne in gravidanza.53-55

Le fonti e i fattori di rischio di ICD in comunità non sono ben definiti. Un’analisi delle ICD acquisite in comunità segnalate negli anni 2009-2011 nell’EIP dei CDC ha mostrato che la maggioranza dei casi (82%) aveva presentato una precedente esposizione sanitaria nelle 12 settimane precedenti la diagnosi di ICD. Il 36% dei casi non presentava alcuna esposizione ad antibiotici nelle 12 settimane precedenti la diagnosi di ICD; di questi il 31% aveva utilizzato un inibitore di pompa protonica.33

I pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali, soprattutto rettocolite ulcerosa, presentano un rischio aumentato di ICD, non solo primaria ma anche recidiva, ed elevate morbilità e mortalità. Il rischio di ICD entro 5 anni dalla diagnosi di rettocolite ulcerosa può essere maggiore del 3% e rende peggiore la prognosi (maggior ricorso a colectomia, maggiori complicanze post-chirurgiche, morte).56 Rispetto alla popolazione generale i pazienti con malattia infiammatoria cronica intestinale hanno il 33% in più di probabilità di presentare una recidiva di ICD.57

Un’altra popolazione di pazienti ad elevato rischio di ICD sono coloro che hanno subito un trapianto di organo solido. Essi presentano una prevalenza di ICD pari a 7,4%.58 Il rischio è più elevato per il trapianto multiorgano, seguono polmone, fegato, intestino, rene e pancreas, con una prevalenza di malattia severa del 5,3% e un rischio di recidiva di ICD di circa 20%.59

I pazienti con insufficienza renale cronica hanno un rischio aumentato di ICD primaria e recidiva di 2-2,5 volte, un rischio di malattia severa e morte di 1,5 volte.60

I pazienti sottoposti a trapianto di midollo presentano un tasso di ICD circa 9 volte più elevato di quello di altri pazienti ospedalizzati; all’interno di questa popolazione i tassi di ICD sono doppi nei trapianti allogenici rispetto agli autologhi. Il rischio maggiore viene registrato nei primi 100 giorni post-trapianto.61


1.2.4 Colonizzazione ed infezione

Alcuni studi hanno determinato che la prevalenza di colonizzazione asintomatica da CD è del 3-26% in adulti degenti in ospedali per acuti41,62 e del 5-7% in anziani ospiti presso le LTCFs.63-66 La prevalenza di CD nelle feci di adulti asintomatici senza recente esposizione sanitaria è <2%.65

Il tempo che intercorre tra la colonizzazione da CD e l’insorgenza di ICD (periodo di incubazione) è stato stimato essere di circa 3-4 giorni,56,57 mentre recenti evidenze fanno presumere un periodo di incubazione maggiore di una settimana.66 Altri recenti studi suggeriscono che i soggetti che rimangono colonizzati asintomatici per lunghi periodi di tempo presentano un ridotto rischio di sviluppare ICD.62,67-69 Il rischio di progressione giornaliero dalla colonizzazione all’infezione non è statico, ma decresce nel tempo; quindi si pensa che la protezione indotta da una colonizzazione a lungo tempo possa essere mediata in parte da un aumento nel siero dei livelli di anticorpi contro le tossine A e B di CD.41,67,68 È anche possibile che, finché un individuo è colonizzato da un ceppo di CD, sia protetto nei confronti di un’infezione da altro ceppo.69


1.2.5 ICD nella popolazione pediatrica

Come per gli adulti, dal 2000 l’incidenza di ICD è aumentata anche nei bambini.70-72 Uno studio di popolazione condotto su bambini residenti in Minnesota, tra il 1991 e il 2009, ha identificato un aumento di incidenza di ICD dal 2,6 al 32,6 per 100.000.69 L’aumento di incidenza interessava anche bambini in comunità e ambulatoriali.70,71,73 Dai dati dell’EIP dei CDC emerge che il 71% dei casi di ICD pediatrici hanno esordito in comunità; questi dati indicano un cambio epidemiologico, con un incremento di malattia in bambini non ospedalizzati.74

Un’importante caratteristica epidemiologica di CD nei bambini è la presenza di colonizzazione asintomatica da parte di ceppi sia tossigeni che non, con tassi più elevati, che possono superare il 40%, sotto i 12 mesi d’età.75-78 I ceppi non tossigeni sono molto più comuni dei ceppi tossigeni tra i bambini colonizzati, ma la colonizzazione è transitoria e diversi ceppi possono colonizzare lo stesso bambino in tempi diversi.76-77 La colonizzazione è meno frequente nei bambini allattati al seno rispetto a quelli allattati artificialmente.78-79 Alcune evidenze indicano l’ambiente ospedaliero come sorgente di acquisizione di ceppi colonizzanti.75,76,79 I tassi di colonizzazione si riducono con il crescere dell’età.78,80 Dai 2-3 anni di età circa l’1-3% dei bambini è portatore asintomatico di CD, tasso simile a quello osservato in adulti sani. Mentre è improbabile che i bambini presentino ICD, quando sono colonizzati possono rappresentare una fonte di trasmissione per gli adulti.33,77,81

I principali fattori di rischio per ICD nel bambino sono gli stessi dell’adulto: recente esposizione agli antibiotici, ospedalizzazione, neoplasia maligna, trapianto d’organo solido, malattia infiammatoria cronica intestinale, gastrostomia o digiunostomia, assunzione di inibitori di pompa protonica o antagonisti dei recettori dell’istamina.82-86

Le forme di ICD severa e le complicanze sono meno comuni nel bambino,83 ma sono state descritte.87,88 Nei bambini ospedalizzati le ICD hanno prognosi peggiore, prolungano l’ospedalizzazione, aumentano i costi ospedalieri e presentano un tasso di mortalità più elevato.89 


2. Modalità di trasmissione e fattori di rischio



2.1 Modalità di trasmissione


Le mani del personale sanitario, transitoriamente contaminate dalle spore di CD,90 e la contaminazione ambientale66,91,92 sono probabilmente le modalità principali con le quali il CD si diffonde in ambiente sanitario. Sebbene l’occupazione di una stanza di degenza precedentemente occupata da un paziente con ICD rappresenti un significativo fattore di rischio per la sua acquisizione, ciò accade approssimativamente nel 10% dei casi,93 indicando in tal modo che altre modalità di trasmissione sono più comuni.94

È ancora controverso il ruolo dei pazienti asintomatici colonizzati nella trasmissione di CD95, dal momento che la contaminazione ambientale da parte di questi pazienti è minore rispetto a quella dei pazienti con sintomatologia.96 Tuttavia, è stato dimostrato che il 29% dei casi di ICD in un ospedale sono associati con portatori asintomatici, mentre il 30% con pazienti sintomatici.66 La trasmissione ambientale è stata osservata in 4 di 61 casi di ICD.66

Due studi hanno evidenziato come gli antibiotici possano influenzare il rischio di ICD. La prescrizione di antibiotici a livello di reparto è un fattore di rischio per ICD indipendente dagli antibiotici o altri fattori individuali del paziente.97 Inoltre, il rischio individuale di ICD è più alto nei pazienti ricoverati in una stanza dove ad un precedente paziente con ICD sono stati somministrati antibiotici, suggerendo una diffusione di CD da parte di portatori asintomatici.98

La diffusione di spore di CD è particolarmente alta tra i pazienti recentemente trattati per ICD, anche dopo risoluzione della diarrea.90,99 In uno studio la frequenza di contaminazione cutanea e diffusione ambientale sono rimaste alte al momento della risoluzione della diarrea (rispettivamente 60% e 37%), si sono ridotte alla fine del trattamento e sono di nuovo aumentate 1-4 settimane dopo il trattamento (rispettivamente 58% e 50%).99



2.2 Fattori di rischio


L’età avanzata è uno dei più importanti fattori di rischio per ICD,41,100 come la durata dell’ospedalizzazione. Il quotidiano incremento del rischio di acquisire CD durante l’ospedalizzazione suggerisce che la durata di quest’ultima può essere mandataria della durata e del grado di esposizione al microrganismo, della probabilità di esposizione agli antibiotici, della gravità della malattia di base.41,62

Il più importante fattore di rischio per ICD modificabile è l’esposizione agli antibiotici. Negli anni è emerso che potenzialmente qualsiasi antibiotico può essere associato a ICD, tuttavia per alcune classi il rischio è più elevato: cefalosporine di III e IV generazione,101 fluorochinoloni,43,103 carbapenemi101 e clindamicina.103 L’assunzione di antibiotici aumenta il rischio di ICD perché essi sopprimono il normale microbiota intestinale, fornendo a CD l’occasione di prosperare.104 L’alterazione del microbiota intestinale da parte degli antibiotici è di lunga durata e il rischio di ICD aumenta sia durante la terapia sia nei 3 mesi dopo l’interruzione della stessa. Il rischio più alto di ICD (7-10 volte) pare sia risultato nel primo mese dopo l’esposizione ad antibiotici.101 Sia il tempo di esposizione che l’utilizzo di più molecole antibiotiche incrementano il rischio di ICD.103 Ciò nonostante, anche un’esposizione molto limitata, come una singola dose di profilassi antibiotica perioperatoria, aumenta il rischio per il paziente di colonizzazione e infezione da CD.105 Tuttavia la colonizzazione asintomatica può non essere associata a precedente esposizione ad antibiotici.65

La chemioterapia antitumorale è un altro fattore di rischio per ICD, in parte per l’attività antibiotica di diversi agenti chemioterapici,106 in parte per i suoi effetti immunosoppressivi (neutropenia).107

CD è un importante patogeno responsabile di diarrea batterica nei pazienti con infezione da HIV; questi presentano un elevato rischio di ICD per la loro immunodeficienza, per l’esposizione ad antibiotici e ad ambienti sanitari potenzialmente contaminati.108

Altro fattore di rischio per ICD è rappresentato dalla chirurgia gastrointestinale e dalla alimentazione tramite sondino naso-gastrico, da gastrostomia e digiunostomia.109

I fattori di rischio per recidiva di ICD sono: età avanzata, esposizione prolungata ad antibiotici, utilizzo di inibitori di pompa protonica, infezione da ceppi virulenti, precedente esposizione a fluorochinoloni.110,111

I fattori di rischio per ICD complicata sono: età avanzata, leucocitosi, insufficienza renale e comorbilità.

I fattori di rischio per elevata mortalità da ICD sono: età, comorbilità, ipoalbuminemia, leucocitosi, insufficienza renale acuta, infezione da ribotipo 027.111

Dati recenti confermano il ruolo dell’immunità umorale, principalmente contro la tossina B, come fattore protettivo nei confronti delle recidive di ICD.112

La vitamina D potrebbe essere un fattore protettivo nei confronti dell’ICD: bassi livelli di vitamina D sono risultati essere un fattore di rischio indipendente nei pazienti con infezione acquisita in comunità, negli anziani e in coloro che presentano una malattia infiammatoria cronica intestinale.113

Rimane ancora controverso se l’utilizzo dei medicinali in grado di ridurre l’acidità gastrica, come gli inibitori della pompa protonica (IPP) e gli antagonisti dei recettori-H2 dell’istamina possano rappresentare un fattore di rischio. Sebbene alcuni studi abbiano suggerito un’associazione tra questi farmaci e l’ICD,114,115 i risultati di altri studi controllati suggeriscono che in tale associazione rientrano fattori di confondimento come la gravità della malattia di base, la diarrea non determinata da CD, la durata dell’ospedalizzazione.43,116 In uno studio retrospettivo di 754 pazienti con ICD correlate all’assistenza, l’utilizzo continuativo di IPP è risultato associato ad un aumento del 50% delle recidive, mentre l’esposizione ad antibiotici solamente del 30%.117 Inoltre l’utilizzo a lungo termine di IPP ha mostrato ridurre la diversità microbica del tratto gastrointestinale inferiore.118


 


3. Diagnosi di ICD



3.1 Definizione di caso per la sorveglianza


I casi di ICD per la sorveglianza sono stati definiti dallo ECDC come qui indicato.6

Un caso di ICD deve soddisfare almeno uno dei seguenti criteri:

1. paziente con feci diarroiche o megacolon tossico (evidenziato mediante criteri clinici e indagini radiologiche) e presenza di CD tossinogenico nelle feci, accertata mediante test microbiologici;

oppure

2. colite pseudomembranosa all’esame endoscopico;

oppure

3. diagnosi istopatologica di ICD (con o senza diarrea) su campione ottenuto durante esame endoscopico, colectomia o autopsia.


Un episodio di ICD con test di laboratorio positivo a meno di 14 giorni (2 settimane) dall’ultimo test positivo non è considerato un caso di ICD ricorrente (recidiva).

Caso di ICD ricorrente (recidiva): nuovo episodio di ICD che si verifica tra 2 e 8 settimane dopo la completa risoluzione di un precedente episodio. Nella pratica clinica non è possibile distinguere tra una ricaduta (reinfezione da medesimo ceppo) e reinfezione da ceppo diverso, per cui il termine “ricorrenza” è usato come designazione per entrambi.

Un caso di ICD può essere classificato in base alla data e luogo di insorgenza dei sintomi. Se le informazioni sulla data dell’insorgenza dei sintomi non sono disponibili, può essere utilizzata la data del primo test di laboratorio positivo.




Caso di ICD correlata all’assistenza, insorta in ospedale o in struttura residenziale (healthcare-onset, healthcare-associated/HO-HA CDI): patologia insorta dopo più di 48 ore dal ricovero in ospedale o dall’ingresso in una struttura residenziale.

Caso di ICD correlata all’assistenza, insorta in comunità (community-onset, healthcare-associated/CO-HA CDI): patologia insorta in comunità o entro 48 ore dal ricovero in paziente dimesso da un ospedale o da una struttura residenziale da non più di 4 settimane.

Caso di ICD di origine comunitaria (community-associated/CA CDI): patologia insorta in comunità o entro 48 ore dal ricovero in paziente che non sia stato ricoverato in ospedale/struttura sanitaria nelle precedenti 12 settimane.

Caso di ICD di origine indeterminata (unknown association/UA CDI): patologia insorta tra 4 e 12 settimane dopo un ricovero.


3.2 Diagnosi endoscopica o radiologica


Le indagini endoscopiche e radiologiche non sono raccomandate di routine nella diagnosi di ICD.7

In caso di forme severe di ICD (es. ileo, megacolon tossico) la diagnosi si basa, oltre che su criteri clinici, anche su criteri radiologici (RX, TAC dell’addome); nella colite pseudomembranosa la diagnosi può essere endoscopica e/o istopatologica.4,120



3.3 Diagnosi di laboratorio


3.3.1 Il paziente target

I pazienti che presentano diarrea inspiegabile, di nuova insorgenza, con ≥3 scariche di feci non formate nelle 24 ore, rappresentano il target preferito per il test di laboratorio.4

Il numero e la frequenza delle scariche diarroiche richiesti per giustificare l’esecuzione del test di laboratorio per la ricerca di CD sono andati diminuendo negli ultimi 40 anni. Tedesco et al. nel 1974 indicavano diarrea >5 scariche di feci liquide al giorno;121 Teasley et al. nel 1983 >6 scariche di feci liquide in 36 ore;122 Fekety et al. nel 1989 >4 scariche di feci liquide al giorno per almeno 3 giorni;123 Johnson et al. nel 2013 ≥3 scariche di feci liquide in 24 ore.124 Utilizzando quest’ultima definizione di diarrea, Dubberke et al. e Peterson et al. hanno analizzato la presenza di sintomi in pazienti le cui feci venivano sottoposte al test per la ricerca di CD.125,126 Peterson et al. dimostrarono che il 39% dei pazienti non presentava i criteri clinici definenti la diarrea, per cui veniva escluso da ulteriori analisi.126 Dubberke et al., utilizzando la medesima definizione di diarrea (≥3 scariche di feci tipo 6 o 7 secondo la scala di Bristol127 nelle 24 ore) o diarrea e dolore addominale crampiforme riferito dal paziente, hanno dimostrato che il 36% dei pazienti non presentavano i criteri clinici definenti la diarrea, ma non uscivano dallo studio.125 Gli autori segnalano che, anche in presenza di sintomi clinici di diarrea, ci può essere un problema clinico confondente, come l’utilizzo di lassativi, che è stato individuato nel 19% dei casi nelle 48 ore prima dell’esecuzione del test.125


3.3.2 I test disponibili e loro indicazioni

Esiste una varietà di metodi di laboratorio per la diagnosi di ICD;128,129 questi sono in grado di rilevare direttamente nelle feci il microrganismo oppure una od entrambe le sue maggiori tossine (A e B). Nella tabella che segue sono elencati i test di laboratorio in ordine decrescente di sensibilità analitica.

Coltura tossigenica (toxigenic culture, TC): prevede la semina del campione, previo arricchimento, su terreni selettivi/differenziali: l’identificazione di specie si avvale di semplici criteri morfologici e “organolettici” (aspetto delle colonie, odore caratteristico). È ritenuto il test più sensibile e anche specifico a condizione che venga saggiata la capacità degli isolati di produrre tossine. A causa del tempo richiesto (3-5 giorni per coltura più identificazione) non è indicata quale test di screening. L’esecuzione della coltura può tuttavia permettere di fare diagnosi di ICD nei casi in cui i test immunologici o molecolari per la ricerca della tossina siano risultati negativi ed ha comunque una insostituibile valenza epidemiologica.4 

Amplificazione di acido nucleico (nucleic acid amplification test, NAAT): il test ha iniziato ad apparire in letteratura nei primi anni ’90 e la prima piattaforma autorizzata dalla Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti non è stata disponibile fino al 2009.128 Sono disponibili oggi almeno 12 piattaforme commerciali in grado di rilevare una varietà di bersagli genetici: tcdA, tcdB, tcdC, cdtA e RNA ribosomiale (rRNA) 16S. L’automazione delle fasi di estrazione, amplificazione e lettura, insieme al tempo di esecuzione intorno ad un’ora, ne fanno il test diagnostico ideale.4,130 

Glutammato deidrogenasi (glutamate dehydrogenase, GDH): consiste nella ricerca del cosiddetto “antigene comune”, indice di presenza di CD, sia tossigenico che non. Il test è dotato di buona sensibilità ma bassa specificità, per cui, in caso di positività, richiede conferma con un test più specifico, in grado di evidenziare la presenza delle tossine A e B. Rappresenta il primo test di screening negli algoritmi diagnostici a 2 o 3 step che lo combinano con il test della tossina e/o con il test molecolare per la rilevazione del gene della tossina.4,128 

Ricerca delle tossine mediante coltura di tessuti e test di neutralizzazione (cell cytotoxicity neutralization assay, CCNA): ritenuta il gold standard per sensibilità e specificità, presenta alcuni inconvenienti che ne hanno limitato la diffusione (necessità di linee cellulari, scarsa standardizzazione, TAT > 48 ore).4





Ricerca delle tossine A e B con metodiche immunoenzimatiche (enzyme immunoassay, EIA): mediamente sensibile (con notevole variabilità tra i test in commercio), è dotato di buona specificità; per la sua praticità e affidabilità è il test attualmente più diffuso nei laboratori.126 L’utilizzo di questo test come unico strumento per la diagnosi di infezione da CD è tuttavia criticato per due motivi: ha sensibilità meno elevata rispetto alla ricerca dell’antigene e le tossine si degradano piuttosto rapidamente se il campione non viene conservato a 2°-8°C.4

A causa delle limitazioni inerenti a ciascun metodo, sono state proposte numerose combinazioni di test diagnostici di laboratorio, che, in genere, prevedono due metodi in sequenza, di cui il primo più sensibile e il secondo più specifico (two step workup).3,4,131

Gli approcci di seguito elencati sono ritenuti accettabili:

ricerca dell’antigene comune (GDH) e successiva conferma dei risultati positivi mediante ricerca delle tossine A e B (EIA);

ricerca dell’antigene comune (GDH) e successiva conferma dei risultati positivi mediante NAAT;161

ricerca dell’acido nucleico (NAAT) e successiva conferma dei risultati positivi mediante ricerca delle tossine A e B (EIA);

ricerca dell’antigene comune (GDH) e delle tossine A e B (EIA); successive indagini molecolari (NAAT) in caso di risultati discordanti; 

ricerca dell’antigene comune (GDH) e delle tossine A e B (EIA); successiva coltura tossigenica (TC) in caso di risultati discordanti.

Se in una istituzione esistono criteri condivisi tra clinici e laboratorio per il triage dei campioni per la diagnosi di ICD (es. non vengono inviati campioni di feci di pazienti che assumono lassativi e vengono inviati i campioni di pazienti con ≥3 scariche di feci non formate nelle 24 ore), secondo le linee guida IDSA,4 è proponibile un approccio single step basato solamente su test NAAT.

Per scopi epidemiologici, almeno in caso di positività della ricerca diretta delle tossine nelle feci, si raccomanda di eseguire la coltura su idonei terreni selettivi/differenziali. La tipizzazione dei ceppi isolati, da eseguire mediante tecniche genotipiche biomolecolari, presso centri di riferimento, è raccomandata solo nei seguenti casi:

aumento dell’incidenza dei casi di ICD o elevata endemia;

aumento della gravità o del numero di complicanze;

aumento della mortalità associata;

aumento d’incidenza delle recidive.

Se o quando eseguire il test per la ricerca di CD è intrinsecamente legato all’accuratezza del metodo impiegato. L’uso ripetuto di test con specificità sub-ottimale ha elevata possibilità di generare falsi positivi. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che il vantaggio diagnostico di ripetere il test entro 7 giorni è circa del 2%.132,133 Quindi, IDSA-SHEA3 consigliano di non ripetere il test (entro 7 giorni) durante lo stesso episodio di diarrea e di non eseguirlo nei pazienti asintomatici.

Il test per la ricerca di CD non va utilizzato per stabilire l’efficacia del trattamento: >60% dei pazienti può rimanere positivo anche dopo una terapia efficace.134,135

Il tasso di colonizzazione da CD tra i neonati asintomatici può superare il 40% ed è più elevato tra i neonati ospedalizzati.136 Sebbene il tasso di colonizzazione diminuisca durante il primo anno di vita, nel 15% dei bambini di 12 mesi possono essere rilevate ancora tossine.137 Per questo, quando si esegue un test in neonati e bambini, c’è un sostanziale rischio di ottenere un risultato falso positivo. IDSA-SHEA consigliano di non eseguire di routine il test in neonati o bambini di età ≤12 mesi con diarrea, ma solo se vi è evidenza di colite pseudomembranosa o megacolon tossico, oppure in caso di diarrea clinicamente significativa, dopo aver escluso altre cause. Anche i bambini tra 1 e 2 anni d’età non dovrebbero essere sottoposti di routine al test, che dovrebbe essere eseguito solo una volta escluse altre cause di diarrea. Nei bambini di età ≥ 2 anni il test dovrebbe essere eseguito in caso di diarrea prolungata o in peggioramento, in presenza di fattori di rischio per ICD: malattia infiammatoria cronica intestinale, condizioni di immunocompromissione, recente contatto con il servizio sanitario o recente somministrazione di antibiotici.


3.3.3 Protocollo diagnostico e comunicazione dei risultati

Al fine di scongiurare risultati falsi negativi si raccomanda di osservare scrupolosamente le corrette modalità di raccolta, conservazione e trasporto del campione (fase preanalitica).

Campioni idonei: feci diarroiche (che assumono la forma del contenitore - scala di Bristol 5-7). Applicando l’algoritmo proposto, di norma, l’esame su un campione è sufficiente. Tuttavia, a fronte di un primo risultato negativo in presenza di forte sospetto clinico di ICD può essere utile ripetere l’indagine, informando il laboratorio di Microbiologia, che potrebbe utilizzare un diverso iter diagnostico.

Campioni non idonei: tampone rettale e feci formate (scala di Bristol 1-4), eccetto il caso di sospetto ileo associato a CD.

Trasporto e conservazione del campione: inviare in laboratorio il campione di feci entro 1 ora dall’emissione. Questa indicazione temporale è strettamente collegata con l’esigenza prioritaria di effettuare la diagnosi nel più breve tempo possibile. Per opportuna conoscenza, comunque, si segnala che, ove necessario, il campione di feci conservato a +4°C per non più di 48 ore mantiene l’integrità delle tossine.

Accesso al laboratorio: il laboratorio deve essere in condizioni di eseguire il test sette giorni su sette e 24 ore su 24, almeno come ricerca dell’antigene. Il tempo di risposta deve essere il più breve possibile; il risultato di un eventuale test positivo deve essere comunicato tempestivamente (sia telefonicamente che telematicamente) all’Unità Operativa e al personale addetto al controllo delle infezioni, così come la richiesta di effettuare ulteriori controlli in caso di esito dubbio.


 


3.3.4 Tipizzazione dei ceppi isolati

Si raccomanda di eseguire la coltura su idonei terreni selettivi/differenziali per scopi epidemiologici almeno in caso di positività della ricerca diretta della tossina nelle feci.

La tipizzazione dei ceppi isolati, da eseguire mediante tecniche biomolecolari presso centri di riferimento, è raccomandata solo nei seguenti casi:

aumento dell’incidenza dei casi di ICD o elevata endemia;

aumento della gravità o del numero di complicanze;

aumento della mortalità associata;

aumento di incidenza delle recidive.





4. Strategie per la sorveglianza e il controllo delle ICD



Per minimizzare l’esposizione a C. difficile è richiesto un approccio multifattoriale; è bene notare che diverse metodologie possono essere più o meno efficaci in contesti differenti, in rapporto all’epidemiologia ed alle risorse locali.3,4

In ogni caso, le strategie di controllo raccomandate hanno l’obiettivo di identificare tempestivamente il patogeno, isolare e trattare efficacemente i pazienti affetti da ICD, al fine di ridurre la disseminazione delle spore e prevenire i casi secondari, nonché di minimizzare i fattori di rischio prevenibili attraverso l’applicazione di protocolli di best practice per l’adozione di corrette procedure comportamentali, l’implementazione di adeguate misure di sanificazione ambientale e di una corretta politica antibiotica.136,137

Gli interventi da porre in atto per la prevenzione sono:

diagnosi tempestiva;

sorveglianza attiva;

formazione ed informazione;

isolamento;

igiene delle mani;

igiene ambientale;

antibiotic stewardship.



4.1 Diagnosi tempestiva


Per ridurre il rischio di trasmissione di CD ad altri pazienti/residenti è essenziale che i casi sintomatici vengano identificati tempestivamente:

effettuare prontamente le indagini microbiologiche per la ricerca di CD tossigeno;

sottoporre al test solo pazienti sintomatici.

Tra i pazienti ricoverati, devono essere sottoposti al test i soggetti che presentano:

diarrea al ricovero non attribuibile a causa nota;

diarrea insorta entro le prime 48 ore, se dimessi da un ospedale da non più di 4 settimane o se provenienti da RSA o case protette;

diarrea insorta dopo almeno 2 giorni di ricovero.

Tra i pazienti ambulatoriali, devono essere sottoposti al test i soggetti con diarrea, dimessi da un ospedale da non più di 4 settimane o provenienti da RSA o case protette.

Eseguire il test per la ricerca di CD tossigeno solo su campioni di feci ottenute in corso di diarrea, quindi su campioni di feci non formate. Solo in caso di sospetto ileo da CD si effettua la ricerca su feci formate. Si raccomanda di non effettuare la ricerca nei campioni di feci di soggetti asintomatici.

Considerare la ripetizione del test in caso di negatività della ricerca delle tossine A e B in presenza di un forte sospetto clinico (possibile scarsa sensibilità del test).

Quando si sospetta una recidiva di ICD, ripetere il test per CD, ma escludere altre cause possibili di diarrea.

Dopo il trattamento non eseguire il test di conferma della guarigione.

Conservare i ceppi di CD tossigeno isolati, specialmente in presenza di un quadro clinico grave di malattia o nelle situazioni in cui si verifichi una epidemia; questo, infatti, consente di poter effettuare la tipizzazione, ove necessario, anche retrospettivamente.



4.2 Sorveglianza attiva


È vivamente raccomandato il mantenimento di una sorveglianza attiva. Tutti gli ospedali dovrebbero assicurare l’inclusione di CD tra i patogeni per i quali è attiva la sorveglianza dei microrganismi “sentinella”.4 

La segnalazione di test positivi per CD deve essere inoltrata ai clinici del reparto che hanno richiesto il test e alle figure addette al controllo delle infezioni.3 È importante garantire la tempestività della segnalazione, per consentire l’attivazione immediata delle misure di isolamento e l’eventuale indagine epidemiologica.140 Quale che sia la metodica di comunicazione adottata (diretta, per telefono, altro), bisogna registrare: giorno e ora della segnalazione, a chi viene fornito il risultato, quale è il risultato, gli eventuali provvedimenti richiesti.

L’adozione di un sistema di sorveglianza delle ICD consente di misurare in ogni struttura sanitaria il loro impatto ed anche di misurare l’efficacia o meno degli interventi adottati. È quindi necessario che ogni struttura sanitaria definisca una propria modalità di sorveglianza delle ICD coinvolgendo anche specifiche unità operative, l’intera struttura o la rete assistenziale.

In base ai risultati della ricerca di CD tossigeno, è fondamentale rilevare per Ospedale/gruppi di reparti (es. chirurgie, lungodegenze)/singola unità operativa, l’incidenza di ICD e la soglia superata per valutare la necessità di attuare misure di controllo supplementari.

I casi possono essere riportati come:

eventi individuali: offrono l’opportunità di raccogliere dati aggiuntivi che possono consentire attività di revisione delle procedure operative, di ricerca, ecc.;

tassi di incidenza di ICD (numero di casi/10.000 giorni-paziente per le HO HA CDI, numero di casi/1.000 pazienti ricoverati per le CO HA CDI) nell’unità di tempo di interesse.4

È importante porre attenzione alle variazioni della frequenza, delle complicanze (comprendendo le recidive della malattia) e della gravità di ICD in quanto potrebbero indicare la presenza di nuovi ceppi.138,141 

In accordo con la normativa,142 le strutture sanitarie sono tenute alla notifica delle ICD alla struttura preposta dell’Azienda sanitaria competente per territorio, con riferimento alla definizione di caso possibile, probabile o confermato, la quale deve poi provvedere a caricarla sulla piattaforma del Sistema PREMAL.

In Italia non è ancora attivo un Sistema di sorveglianza nazionale delle ICD, ma nel 2019 è stato avviato il progetto “Sostegno alla Sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza anche a supporto del PNCAR”, finanziato dal Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM) e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che prevede la predisposizione di un sistema nazionale dedicato alla sorveglianza delle ICA, inclusa la sorveglianza delle ICD. La fase pilota della sorveglianza delle ICD si svolge nel periodo 2022-2023, basandosi sul protocollo operativo proposto dall’ECDC, e coinvolge un numero rappresentativo di strutture ospedaliere pubbliche italiane. Durante la sorveglianza pilota vengono raccolti dati epidemiologici e microbiologici. Questi ultimi sono forniti dall’analisi (caratterizzazione e tipizzazione molecolare) dei ceppi inviati all’ISS dalle strutture ospedaliere partecipanti.



4.3 Formazione-informazione


Una raccomandazione trasversale a molte linee guida in tema di prevenzione e controllo delle infezioni correlate all’assistenza riguarda l’educazione.3 La forza intrinseca della raccomandazione è data da una significativa correlazione tra formazione/informazione e successiva riduzione del rischio; questa risulta connessa alla modificazione dei comportamenti del personale sanitario e degli studenti, ma anche del personale afferente a ditte appaltate, dei visitatori, delle persone che, con vari ruoli, si prendono cura del paziente.


a. Operatori

La formazione indirizzata al personale che opera nelle Unità Operative deve fornire informazioni/indicazioni in merito a:

• origine della malattia e meccanismi patogenetici;

• potenziali serbatoi di infezione, contaminazione ambientale, modalità di trasmissione;

• procedure evidence-based per l’igiene delle mani e la decontaminazione delle superfici;

• trattamento della biancheria;

• misure di controllo delle infezioni, con particolare riguardo alle precauzioni da contatto e all’uso dei guanti.

La formazione deve essere rivolta al personale sanitario (medici, infermieri, fisioterapisti, ecc.) e non sanitario, in particolare a quello coinvolto negli interventi di pulizia.

La formazione/informazione deve raggiungere anche il personale che opera in servizi centrali o appaltati (pulizie, lavanderia). A tal fine è utile un collegamento con gli Uffici Amministrativi di riferimento nella struttura.

L’allegato B propone una modalità di approccio strutturata in merito alla formazione degli operatori sanitari su CD.

 

b. Paziente, familiari, ecc.

Per un intervento efficace, la informazione/formazione deve essere rivolta anche a tutti coloro che, a vario titolo, hanno rapporti con il paziente (parenti, visitatori, personale non sanitario che si prende cura del paziente).

Ove possibile, il paziente stesso deve essere correttamente informato in merito alle caratteristiche della patologia da cui è affetto e alle precauzioni da contatto da applicare sistematicamente per prevenire la disseminazione di spore; un impegno particolare si deve porre sugli aspetti prioritari, specie sulla esigenza di una appropriata igiene delle mani, in generale e nei momenti critici (dopo l’uso dei servizi igienici, prima di lasciare la stanza, prima di mangiare).

L’attività formativa/informativa dovrebbe essere supportata dall’utilizzo di dépliant esplicativi che, in modo sintetico, con linguaggio semplice e preferibilmente con supporto visivo di illustrazioni, diano indicazioni sulle misure di prevenzione raccomandate (allegato C).

Nell’ambito delle attività informative/educative indirizzate ai visitatori, sarebbe opportuno che le strutture ospedaliere indicassero nelle norme locali (ad esempio nella Guida all’utente, che viene normalmente consegnata all’ingresso in ospedale) che soggetti che presentano diarrea non dovrebbero visitare pazienti in ospedale.



4.4 Isolamento


La tempestività è un aspetto molto importante nelle misure di controllo delle infezioni; per questo è vivamente raccomandato che le precauzioni per ICD vengano implementate in base alla presenza di sintomi, senza attendere i risultati dei test. In uno studio canadese gli ospedali che si attenevano a questa regola non hanno registrato focolai/epidemie lungo il corso di un anno.143

IDSA-SHEA3 raccomandano di sistemare il paziente con ICD in stanza singola con servizi igienici dedicati; in caso di numero limitato di stanze singole, dare la priorità a pazienti con incontinenza fecale; se necessario, costituire una coorte di pazienti tutti infetti dallo stesso microrganismo.

Come regola generale, ai pazienti con diarrea dovrebbe essere riservato un servizio igienico dedicato. Anche se molte fonti indicano che in assenza di un servizio dedicato si può utilizzare una comoda personale, non si può sottovalutare il fatto che ciò comporta varie difficoltà gestionali, legate sia alla generale carenza di spazi da dedicare ad un idoneo posizionamento della comoda sia alla difficoltà di procedere sistematicamente in corso d’uso al suo corretto trattamento. Per questo si ritiene opportuno raccomandare di assegnare, nei limiti del possibile, un servizio igienico al paziente deambulante con ICD.

Con tale premessa, in presenza di pazienti deambulanti con diagnosi di ICD si possono configurare tre situazioni:

a. disponibilità di camera singola con servizio igienico: la camera singola è sempre consigliata, ma è particolarmente raccomandata quando il paziente è incontinente, ha un basso livello igienico e ci si attende che non sia collaborativo nell’osservanza delle misure di controllo previste;

b. non è disponibile la stanza singola: dedicare al paziente con ICD l’intera stanza a più letti oppure riservargli il servizio igienico della stanza. In questo secondo caso, in corso di assistenza nel passaggio dal paziente infetto a quello non infetto provvedere al cambio dell’abbigliamento protettivo e all’igiene delle mani;144

c. sono contemporaneamente presenti più pazienti con ICD: più pazienti con ICD possono essere collocati nella stessa stanza (coorte di pazienti). L’isolamento di coorte non deve essere adottato tra pazienti colonizzati/infetti con microrganismi diversi (es. CD, VRE, MRSA).

L’isolamento di coorte consente di:

delimitare l’area potenzialmente contaminata facilitando le operazioni di pulizia e la verifica del loro livello di efficacia;

dedicare personale formato o ben addestrato in merito alle misure di controllo per minimizzare il rischio di infezioni crociate ad altri pazienti.

Se nessuna delle soluzioni prospettate è ritenuta percorribile, si consideri l’uso della comoda personale, definendo a priori la sua localizzazione e gestione per evitare problemi e rischi agli altri pazienti.

Per i pazienti allettati utilizzare padella e/o pannoloni. La padella deve essere monouso o dedicata; nel secondo caso, se non è protetta da sacchetti igienici monouso, deve essere trattata in macchine lavapadelle.

I sacchetti igienici monouso (hygienic bags), dotati di proprietà assorbenti, vanno applicati sulla padella o sul vaso della comoda e, dopo l’uso, chiusi e smaltiti. Essi rappresentano una nuova metodica, che ha il potenziale di limitare la dispersione di spore con un contenimento dei rifiuti all’origine.145 

Sacchetti igienici e pannoloni devono essere smaltiti come rifiuti a rischio infettivo.

IDSA-SHEA4 e ESCMID3 raccomandano l’utilizzo di guanti e camici monouso da parte del personale sanitario prima di entrare nella stanza e di attuare misure assistenziali al paziente con ICD.

Le precauzioni da adottare in presenza di pazienti, autosufficienti o allettati, con ICD sono di tipo organizzativo e operativo. Si indicano sinteticamente le principali:

apporre sulla porta della stanza una segnaletica idonea ad indicare l’isolamento da contatto e le relative precauzioni da adottare (allegato C2);

se possibile, affidare l’assistenza al paziente ad una equipe dedicata e formata; in assenza di ciò, bisogna comunque garantire che il personale addetto sia ben addestrato in merito alle misure di prevenzione;

usare idonei dispositivi di protezione/mezzi di barriera (guanti e sovracamice con maniche lunghe); i DPI devono essere indossati per ogni contatto con il paziente e/o l’ambiente (in particolare superfici di facile contaminazione, superfici del servizio igienico);

usare preferibilmente materiali monouso, da eliminare subito dopo l’impiego in appositi contenitori per rifiuti a rischio infettivo, posti all’interno della stanza;

non rilevare la temperatura per via rettale;

disporre all’interno della stanza un corredo personalizzato di dispositivi medici e altro materiale destinato all’assistenza: sfigmomanometro (con copribracciale monouso), termometro (preferibilmente a infrarossi, frontale o auricolare), sedia a rotelle, padella, pappagallo, biancheria di ricambio del letto, ecc.;

se alcuni dispositivi/materiali in uso devono essere condivisi con altri pazienti, sottoporli ad un accurato intervento di pulizia e disinfezione dopo l’utilizzo (cfr gestione dei dispositivi);

nel corso di pratiche assistenziali porre attenzione ad evitare la dispersione di contaminanti nell’ambiente (ad esempio, evitare il contatto delle mani guantate con le superfici circostanti);

concentrare le attività assistenziali (rilevazione parametri vitali, medicazioni, svuotamento sacche drenaggio, ecc.), ove possibile, in momenti ben definiti della giornata e procedere immediatamente alla eliminazione dei rifiuti, all’allontanamento della biancheria sporca, secondo le regole locali per materiali a rischio infettivo, ed alla detersione e disinfezione delle superfici potenzialmente contaminate.


È misura utile la predisposizione di una check-list per l’allestimento della stanza di isolamento e del relativo servizio igienico.

I trasferimenti del paziente con ICD devono essere limitati a quelli necessari per esigenze diagnostico-terapeutiche.

In caso di spostamento del paziente si deve:

avvisare il personale del servizio/UO ricevente, per evitare stazionamenti non opportuni;

igienizzare le mani del paziente con acqua e sapone prima che lasci la stanza di degenza;

dotare il paziente trasportato, se incontinente, di dispositivi (es. pannoloni) per ridurre il rischio di contaminazione ambientale;

segnalare le condizioni del paziente al personale addetto al trasporto, per mettere in atto gli opportuni interventi di pulizia e disinfezione sui dispositivi utilizzati per il trasporto;

in caso di trasferimento ad altra struttura, anche dopo risoluzione della patologia, segnalare per iscritto la ICD, al fine di consentire il proseguimento di una attenta sorveglianza clinica (elevata frequenza di recidive).


Anche se ci sono evidenze che i pazienti con ICD possono continuare ad eliminare spore nelle feci dopo la risoluzione dei sintomi, IDSA-SHEA3 indicano che è sufficiente mantenere le precauzioni da contatto sino a 48 ore dopo l’ultima scarica diarroica. Il razionale di questa indicazione è legato al fatto che il rischio di trasmissione è molto ridotto in assenza di diarrea e risulta generalmente governabile con l’applicazione delle misure precauzionali standard e, in particolare, di un’attenta igiene delle mani da parte di tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’assistenza del paziente (personale di assistenza, di supporto, visitatori). Laddove si ravvisassero situazioni di difficile governabilità, la scelta locale può essere quella di mantenere l’isolamento da contatto sino alla dimissione.146 

In alcune situazioni assistenziali, soprattutto in presenza di pazienti cronici affetti da ICD, potrebbe risultare difficile garantire la disponibilità di personale dedicato e formato. Premesso che tale requisito è critico per il successo degli interventi e rimane pertanto un obiettivo da perseguire, come misura temporanea è almeno necessario assicurare le seguenti modalità organizzative:

a. la presenza di una procedura aziendale che specifichi le misure di prevenzione e controllo da adottare tempestivamente in presenza di un caso sospetto o accertato di ICD;

b. il rapido coinvolgimento del CIO e l’intervento di personale infermieristico specialista nel rischio infettivo per verificare, attraverso il sopralluogo, l’adozione delle misure raccomandate, la presenza di eventuali criticità e per effettuare eventuali re-training formativi sul campo.



4.5 Igiene delle mani


La contaminazione delle mani di operatori sanitari e pazienti con CD (forme vegetative e/o spore) rappresenta una importante via di trasmissione. È stata individuata una forte correlazione tra il livello di contaminazione delle mani e l’intensità della contaminazione ambientale, pertanto entrambi rappresentano due componenti fondamentali dei programmi mirati a prevenire la trasmissione di questo patogeno.

Un corretto approccio all’igiene delle mani prevede tre tipologie di intervento.

Il primo è di tipo strutturale e richiede di verificare se la dotazione/localizzazione di lavandini è idonea (es. presenza di un sistema di erogazione dell’acqua di tipo no-touch) per favorire una corretta implementazione della procedura nella/e stanza/e da assegnare a pazienti con ICD. In caso negativo è necessario segnalare la problematica all’attenzione di CIO/ Direzione Sanitaria per valutare nuove eventuali possibili soluzioni.

Il secondo è di tipo procedurale e richiede di definire in quali momenti assistenziali e con quale tempistica attuare l’igiene delle mani e indossare i guanti.


Igiene delle mani: quando? 

• Prima e dopo ogni contatto con il paziente;

• passando da una procedura assistenziale all’altra sullo stesso paziente;

• prima di una manovra asettica;

• dopo il contatto con l’ambiente circostante del paziente (unità del malato: letto, comodino, testaletto, pulsante di chiamata, ecc.) e con tutte le superfici dei servizi igienici;

• dopo il contatto con materiali potenzialmente contaminati;

• dopo la rimozione dei guanti;

• prima di lasciare la stanza.


Igiene delle mani: con quali prodotti?

IDSA-SHEA4 e ESCMID 3 raccomandano di prediligere il lavaggio con acqua e soluzione detergente o detergente-antisettica alla frizione alcolica.

Il CD può essere presente allo stato vegetativo e/o di spora e i ceppi tossigenici sono i maggiori produttori di spore.

Gli antisettici hanno spettro d’azione limitato e agiscono solo sulle forme vegetative. Per questo, nei casi di sospetta/accertata diarrea infettiva da CD, l’igiene delle mani dopo l’avvenuto contatto con il paziente infetto o con superfici o materiali potenzialmente contaminati deve essere effettuata mediante lavaggio con:

acqua e soluzione detergente oppure

acqua e soluzione detergente e antisettica.

Nel primo caso l’attività detergente garantisce l’effetto meccanico di rimozione di materiale organico (visibile o meno) e, con questo, di una buona parte di microrganismi potenzialmente presenti, comprese le spore; nel secondo l’effetto meccanico di rimozione, assicurato dal detergente, è accompagnato da quello antisettico, che agisce sulle forme vegetative eventualmente presenti.

La frizione alcolica non ha indicazione prioritaria in presenza di diarrea di origine infettiva perché l’alcol è efficace sulle forme vegetative, ma non sulle spore che sopravvivono al trattamento e che possono poi essere trasmesse. La frizione alcolica ha tuttavia corretta indicazione:

prima di indossare i guanti per il contatto con il paziente o l’ambiente;

in particolari situazioni, dopo aver rimosso i guanti, purché la mano non sia visibilmente sporca. Questa seconda indicazione, che ha evidenti margini di incertezza di efficacia, deve essere considerata una alternativa solo in presenza di obiettive difficoltà ad espletare la procedura standard (es. per carenza di lavandini). Ovviamente, se la mano è visibilmente sporca deve essere sempre attuato il lavaggio con soluzione detergente o detergente-antisettica.


Guanti. È raccomandato l’utilizzo di guanti protettivi monouso quando si prevede il contatto diretto con il paziente e con i suoi liquidi biologici potenzialmente infetti come misura precauzionale aggiuntiva, e non sostitutiva, all’igiene delle mani. 

È quindi raccomandato il loro impiego al fine di:

• ridurre la contaminazione transitoria delle mani degli operatori, fattore di rischio per la contaminazione crociata (cross-contamination);

• ridurre il rischio di acquisizione dell’infezione da parte del personale di assistenza attraverso il contatto diretto con il paziente infetto o con superfici ambientali contaminate.

È raccomandato di rimuovere prontamente i guanti contaminati dopo il loro utilizzo, eliminandoli come materiale potenzialmente infetto, prima di entrare in contatto con superfici non contaminate; deve seguire un immediato lavaggio delle mani con acqua e soluzione detergente o detergente-antisettica.


Il terzo intervento è di tipo formativo/informativo/educazionale in merito ai comportamenti e deve essere indirizzato sia al personale addetto che a pazienti, visitatori, caregiver, ecc.



4.6 Igiene ambientale


È largamente documentato che in presenza di malattia da CD si ha contaminazione ambientale (forme vegetative e spore); il problema è particolarmente critico se il paziente ha abbondanti scariche di feci liquide o è incontinente. La contaminazione può riguardare oggetti nelle vicinanze del paziente (campanello di chiamata, telefono, ecc.), l’area circostante (sponde del letto, comodino, sedie, ecc.), dispositivi medici/materiali in uso, superfici ambientali di maggior contatto (maniglie, pavimenti, ecc.) e, in particolare, i servizi igienici (superficie WC, bidet, superficie lavandino, padella, pappagallo, ecc.). È noto altresì che vi è una forte correlazione tra contaminazione ambientale e trasmissione di C. difficile in ambito sanitario.147

Le forme vegetative di CD sopravvivono nell’ambiente per breve tempo (circa 15’) su superfici asciutte, ma possono rimanere vitali per alcune ore in presenza di umidità; le spore batteriche, invece, sono altamente resistenti e, in assenza di un adeguato trattamento, possono sopravvivere per periodi di tempo anche molto lunghi (mesi). La contaminazione ambientale è spesso all’origine della trasmissione di CD, che si può verificare anche a distanza di tempo se non vengono effettuate adeguate misure di sanificazione delle superfici ambientali.

L’attenzione alla decontaminazione ambientale ha quindi un ruolo cardine negli interventi di prevenzione.

Le forme vegetative di CD sono sensibili ai comuni disinfettanti ambientali e vengono facilmente eliminate. Molto più difficile è garantire attività sulle spore perché, dovendo spesso effettuare il trattamento in presenza del paziente, le problematiche di tipo tossicologico e organizzativo non consentono di utilizzare disinfettanti di livello alto a concentrazioni e per tempi di contatto sporicidi. Per questo, anche nell’igiene ambientale ha un ruolo importante una adeguata detersione preliminare, che garantisca la rimozione meccanica di materiale organico (sporco) e con questo di una elevata quota di contaminante, e che deve essere sostenuta/accompagnata dalla disinfezione.

È fondamentale tener presente che l’uso di disinfettanti non efficaci e di concentrazioni non adeguate può favorire la sporulazione e quindi la persistenza del batterio nell’ambiente.148

La letteratura non dà indicazioni univoche in merito alle modalità di sanificazione routinaria più efficace; si propongono qui di seguito proposte operative che, al momento attuale, sono considerate di buona affidabilità, in base a studi effettuati e/o ad un razionale teorico.

La detersione (detergente+acqua+sfregamento, seguiti da risciacquo) rappresenta una misura necessaria, ma non sufficiente, per la rimozione delle spore.

I cloroderivati sono i disinfettanti di scelta in presenza di infezioni da CD. La concentrazione d’uso indicata è di almeno 1.000 ppm. 147 Concentrazioni superiori (5.000 ppm) risultano di difficile applicazione quando si opera in presenza di pazienti. Per i diversi cloroderivati disponibili si propongono alcune considerazioni:

• le soluzioni di candeggina (ipoclorito commerciale) non sono sempre affidabili per quanto riguarda la concentrazione, che è soggetta a decadimento soprattutto se le condizioni di conservazione (tempo, temperatura, esposizione alla luce) non sono corrette;

• le soluzioni di sodio ipoclorito registrate come PMC e dotate di scadenza presentano buone caratteristiche di stabilità;

• sodiodicloroisocianurato (NaDCC) è il prodotto con il miglior profilo di stabilità, anche in presenza di materiale organico, e con minore corrosività. Le concentrazioni d’uso consigliate sono uguali a quelle indicate per ipoclorito (1.000-5.000 ppm).

È possibile trattare le superfici ambientali utilizzando miscele di detergenti con disinfettanti, prodotti che, al tempo stesso, rimuovono lo sporco e agiscono sui microrganismi contaminanti. In presenza di CD è di prima scelta l’associazione di un detergente con cloroderivato, garantendo le concentrazioni in cloro sopra indicate. Considerato il rischio che deriva dalla sopravvivenza di spore residue e la loro resistenza, l’area interessata deve ricevere un trattamento in due fasi: un primo passaggio di pulizia, seguito dal risciacquo, consente la rimozione/eliminazione di una importante frazione di sporco e di contaminanti, il secondo passaggio potenzia l’effetto di detersione e disinfezione.

Per l’uso, si inumidiscono le superfici da trattare con il prodotto scelto, garantendo un tempo di contatto di almeno 10 minuti per concentrazioni di 5.000 ppm o di 20 minuti per concentrazioni inferiori. È assolutamente critica la fase di detersione, cui compete di eliminare una importante quota delle spore presenti, facilitando così l’attività del disinfettante. È raccomandato di prolungare, per quanto possibile, il tempo di contatto e quindi l’azione del disinfettante, anche ripetendo l’intervento. 

Ceppi ipervirulenti, come il ribotipo 027, possono risultare meno suscettibili alle concentrazioni di cloro pari a 1.000 ppm, pertanto è raccomandato l’uso di concentrazioni più alte.158

Per evitare problemi di corrosività sui metalli a seguito di impiego ripetuto/prolungato, risciacquare con acqua le superfici metalliche disinfettate, trascorso il tempo di contatto previsto.

Poiché le superfici, soprattutto quelle a stretto contatto con il paziente, possono venire ripetutamente contaminate, è raccomandata la ripetizione degli interventi nell’arco della giornata (allegato D).


Il risultato di una sanificazione ambientale è fortemente dipendente dalle modalità operative. Per questo, in presenza di CD, che comporta una situazione ad elevato rischio infettivo, è importante che il personale addetto alle pulizie:

sia presente in numero adeguato e con una formazione specifica: questa deve comprendere le modalità per il corretto utilizzo dei prodotti alle concentrazioni raccomandate e dei materiali, per evitare di diffondere le spore in altri locali;

venga immediatamente avvisato di una eventuale contaminazione ambientale con feci, che deve essere prontamente rimossa.138 

Qualora il servizio di pulizie fosse appaltato a ditta esterna, è opportuno che nel contratto d’appalto con la ditta stessa siano specificati sia il numero adeguato di operatori sia la necessità di una formazione ripetuta degli stessi e di un controllo regolare per garantire la qualità della pulizia.


Alla dimissione/trasferimento del paziente con sospetta/accertata CDI è necessario effettuare un intervento di sanificazione di tutte le superfici ed oggetti presenti, utilizzando i prodotti sopra indicati; in questa situazione, operando in assenza del paziente è indicato l’impiego di soluzioni di cloroderivati ad una concentrazione di 5.000 ppm. È inoltre importante che i panni utilizzati siano opportunamente ricondizionati, altrimenti è preferibile utilizzare panni monouso, anche pre-impregnati, con dimostrata attività sporicida secondo lo standard EN ISO 16615, o per il biocida lo standard EN ISO 14347.

È altresì importante sostituire copri-materasso, coperte e cuscini, inviandoli al lavaggio nell’apposito sacco per biancheria infetta.

Per una sistematica e corretta implementazione degli interventi è necessario che ogni struttura predisponga una procedura in merito agli interventi di igiene ambientale da porre in atto in presenza di CDI (allegato D).

È opportuno che l’efficacia del protocollo operativo utilizzato per la pulizia e disinfezione ambientale sia regolarmente valutata con osservazione diretta, o, preferibilmente, con l’utilizzo di marker fluorescenti o con la determinazione dell’ATP, se le risorse lo consentono. I ruoli e le responsabilità dell’applicazione dei protocolli alle apparecchiature mediche mobili, condivise tra i reparti, devono essere chiaramente definiti nelle procedure operative e l’aderenza ai protocolli regolarmente valutata attraverso monitoraggio, come descritto in precedenza.159 Qualora il servizio di pulizie fosse appaltato a ditta esterna, è opportuno che nel contratto d’appalto con la ditta stessa sia specificata la necessità di un controllo regolare per garantire la qualità della pulizia.

Negli ultimi anni per l’eradicazione di CD dall’ambiente è stato proposto l’impiego di tecnologie di disinfezione “no-touch”. Questi dispositivi utilizzano radiazioni ultraviolette o la aerosolizzazione/nebulizzazione di biocidi, come il perossido di idrogeno, per disinfettare l’ambiente. Diversi studi hanno dimostrato che sono efficaci nel ridurre la presenza di spore di CD nelle stanze dei pazienti. 149-151 Nessuna tecnologia “no-touch” è risultata essere superiore ai protocolli standard nel ridurre l’incidenza di ICD. Ci sono diversi reports che associano l’uso di tecnologie “no-touch” di disinfezione a riduzioni di ICD, ma tutti presentano almeno un limite, tra cui metodi statistici inappropriati, altri interventi simultanei, elevata incidenza di ICD prima dell’implementazione, ecc. Solo nello studio “BETR Disinfection”, Anderson et al. hanno dimostrato una significativa riduzione delle ICD dopo l’implementazione del protocollo standard con la disinfezione ultravioletta a luce pulsata.159

IDSA-SHEA3 e ESCMID2 sostengono che al momento i dati disponibili sono troppo limitati per trarre delle conclusioni in merito a se e quando questi metodi di disinfezione possano essere considerati componenti di un programma di prevenzione delle ICD.



4.7 Gestione dei dispositivi medici e delle attrezzature


Le raccomandazioni3,138 focalizzano l’attenzione su quattro punti critici.

a. In presenza di infezione da CD i dispositivi medici/attrezzature di difficile trattamento dovrebbero essere, ove possibile, di tipo monouso.

b. Alcune tipologie di dispositivi, che per loro natura non sono di facile trattamento (es. bracciali per pressione, stetoscopi e ossimetri) dovrebbero essere di impiego personalizzato e comunque sottoposti ad accurata pulizia/disinfezione dopo l’uso.

c. Una attenzione particolare meritano i dispositivi per la rilevazione della temperatura.

• I termometri elettronici rettali possono avere un ruolo importante nella trasmissione131 e quindi dovrebbero essere utilizzati solo in presenza di specifiche esigenze cliniche; in questo caso, devono essere dedicati ed essere detersi e disinfettati con cloroderivati dopo ogni uso. L’esigenza della detersione e disinfezione permane se si utilizzano con coprisonda monouso.

• È indicato l’utilizzo di altre tipologie di termometri elettronici o dei termometri timpanici a infrarossi; in ogni caso è opportuno che il termometro sia personalizzato e utilizzato con dispositivi di rilevazione monouso, per limitare il rischio di contaminazione.

d. Dispositivi medici e strumentario da riutilizzare, devono essere sottoposti, subito dopo l’uso, a decontaminazione, seguita dalla detersione e, secondo i casi, da sterilizzazione o disinfezione con un prodotto ad attività sporicida, operando con concentrazioni d’uso e tempo d’azione idonei a garantire l’efficacia.

Gli endoscopi gastrointestinali, dopo l’uso, sono facilmente contaminati da spore di CD; tuttavia la corretta applicazione delle procedure standard di trattamento, che prevedono detersione e disinfezione di alto livello, garantisce da possibili trasmissioni. Uno studio caso-controllo retrospettivo ha infatti dimostrato che il rischio di acquisizione di ICD correlato a endoscopia è molto basso, se confrontato al rischio associato all’alterazione del microbioma intestinale causato dalla preparazione e dalla profilassi antibiotica pre-procedura.160


Un’attenzione particolare va indirizzata alla gestione delle padelle. La termodisinfezione con l’uso di lavapadelle rappresenta una metodica diffusa nelle strutture sanitarie e assistenziali. In genere, le apparecchiature in uso operano ad una temperatura massima di 90-92°C per un tempo che va da 1’45” a 2’ attuando in tal modo una disinfezione di alto livello, ma non sporicida. In presenza di pazienti con ICD si consiglia di prevedere le seguenti opzioni:

adottare la padella monouso o con sacchetto igienico;

adottare la padella personalizzata ed effettuare il suo trattamento nella lavapadelle (se presente) oppure decontaminazione/detersione, disinfezione con cloroderivati e risciacquo;

alla dimissione/guarigione effettuare lavaggio e disinfezione della padella (immersa completamente) con cloroderivato 5.000 ppm per 30 minuti, risciacquo e asciugatura.



4.8 Corretta gestione degli antibiotici


L’esposizione agli antibiotici, in terapia e/o profilassi, svolge un importante ruolo favorente la ICD in rapporto a due aspetti: a) anzitutto, provoca alterazioni del microbiota gastrointestinale determinando una nicchia ecologica favorevole alla proliferazione di CD, b) in secondo luogo, seleziona mutanti di CD resistenti nei confronti di clindamicina e fluorochinoloni, e si ritiene che questo rappresenti altresì un importante fattore di virulenza.154 Attualmente gli antibiotici sono quindi considerati, insieme con il fattore “età”, uno dei principali fattori di rischio per ICD; per questo nell’ambito della prevenzione è fondamentale adottare strategie che indirizzino ad un uso prudente degli stessi nella routine.155 

Anche se la letteratura non propone dati univoci in merito al ruolo che singoli antibiotici o singole classi possono assumere nella genesi del problema, ed è spesso costituita da studi con limiti metodologici, è opinione condivisa che alcune classi siano coinvolte più frequentemente di altre: fluorochinoloni, cefalosporine, clindamicina, penicilline associate a inibitori delle β-lattamasi, carbapenemi, aztreonam.4

Non tutti gli studi confermano un impatto significativo di politiche di riduzione selettive della prescrizione; più che l’esposizione ad una singola classe è il consumo globale di antibiotici delle singole strutture sanitarie che si propone come varabile di massimo valore predittivo.4, 156 

Gli interventi che si sono dimostrati efficaci per prevenire/ridurre il rischio di ICD sono:

applicare nell’istituzione una politica antibiotica prudente, restringere l’uso di farmaci di elevata efficacia a situazioni ben individuate e specifiche, informare i clinici sull’andamento delle prescrizioni/consumi di antibiotici;

evitare terapie di associazione, utilizzandole solo nei pochi casi in cui sono indispensabili, e limitare la durata delle terapie;

evitare qualsiasi forma di prescrizione inappropriata di antibiotici.

In corso di epidemia, rivalutare quanto prima possibile la politica di prescrizione antibiotica in atto nell’istituzione (principi attivi, frequenza di utilizzo, posologie giornaliere, durata della terapia) ed evitare preferibilmente l’impiego di molecole potenzialmente più idonee a favorire ICD nei pazienti a rischio, utilizzando antibiotici nel contesto di protocolli clinici condivisi.


4.9 Terapia dell’ICD


4.9.1 Prevenzione dell'ICD con probiotici

Diverse metanalisi indicano che i probiotici possono essere efficaci a prevenire la ICD quando somministrati a pazienti senza storia pregressa di ICD che assumono antibiotici. Tuttavia, gli studi considerati presentano delle limitazioni metodologiche, per cui al momento non ci sono dati sufficienti per raccomandare la somministrazione di probiotici per la prevenzione primaria di ICD al di fuori di studi clinici.4 


4.9.2 Terapia dell'ICD

Le strategie di trattamento dei casi accertati di ICD, oltre alle misure restrittive e comportamentali degli operatori sanitari, prevedono di:

sospendere quanto prima possibile ogni terapia con antibiotici; in caso di necessità terapeutica non procrastinabile, selezionare classi potenzialmente meno implicate in casi di ICD quali aminoglicosidi, cotrimoxazolo, macrolidi, tetracicline, glicopeptidi;

reintegrare liquidi ed elettroliti persi;

porre il paziente in idonea alimentazione;

evitare ogni tipo di farmaco antiperistaltico, se non in caso di frequenze estreme di scariche;

effettuare terapia antibiotica specifica.


Sebbene esista un’associazione epidemiologica tra uso di inibitori di pompa protonica (IPP) e ICD, non ci sono prove sufficienti a dimostrare che la loro sospensione sia una misura efficace per prevenire le ICD.3

La terapia antibiotica specifica deve essere impostata in funzione del tipo di infezione (primo episodio, recidiva) e della gravità del caso. In allegato A sono sintetizzate le raccomandazioni terapeutiche presenti nelle linee guida ESCMID1-3, IDSA/SHEA 4,5 e ASCRS.6

Il trattamento antibiotico del primo episodio di ICD nell’adulto, forma non grave, e delle recidive fa riferimento a tre molecole: vancomicina, fidaxomicina e metronidazolo.4,5

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA - Gazzetta Ufficiale n° 38 del 16.02.16, pag. 18) prevede l’uso di vancomicina, metronidazolo e fidaxomicina per il trattamento della prima ICD e per una prima recidiva. In particolare le indicazioni prevedono:

vancomicina: indicata nel trattamento della colite pseudo membranosa da C. difficile associata ad antibioticoterapia (Gazzetta Ufficiale n° 185 del 8.08.2002),

• metronidazolo: da utilizzare nel trattamento del primo episodio o della prima recidiva (se della stessa gravità del primo evento),

• fidaxomicina: il farmaco è rimborsabile da parte del SSN (classificandolo in H) con prescrizione mediante una scheda di monitoraggio che ne limita l’uso al trattamento:

a. del primo episodio di ICD in pazienti intolleranti o che non rispondono alla terapia di prima scelta (vancomicina e metronidazolo) oppure in pazienti ad alto rischio di recidiva (ad es. pazienti immunocompromessi o con altre gravi patologie concomitanti);

b. degli episodi di ICD successivi al primo (trattamento delle infezioni ricorrenti da CD).


La letteratura di questi ultimi anni ha modificato le strategie di cura, limitando l’uso del metronidazolo ed ampliando quello della fidaxomicina. Secondo le linee guida internazionali di IDSA-SHEA4,5 ed ESCMID6 vancomicina e fidaxomicina sono infatti da preferire a metronidazolo, al seguente dosaggio:

fidaxomicina orale 200 mg 2 volte al giorno per 10 giorni oppure

vancomicina orale 125 mg 4 volte al giorno per 10 giorni.

Nei casi in cui non vi sia disponibilità di fidaxomicina e vancomicina, solo nei casi di ICD non grave, si consiglia metronidazolo 500 mg 3 volte al giorno per 10 giorni.

Quando l’accesso a fidaxomicina è limitato, essa è raccomandata quando è elevato il rischio di recidiva di ICD: età avanzata del paziente (> 65 anni) e presenza di uno o più fattori di rischio (HA-CDI, ricovero negli ultimi 3 mesi, uso concomitante di antibiotici, uso di inibitori della pompa protonica iniziato durante/dopo la diagnosi di ICD, precedente episodio di ICD).

Secondo le linee guida IDSA-SHEA4 ed ESCMID6 nelle forme gravi (forme fulminanti, ileo paralitico o megacolon tossico) dell’adulto, vancomicina orale o tramite sondino nasogastrico 125 mg 4 volte al giorno oppure fidaxomicina 200 mg 2 volte al giorno sono i regimi di prima scelta; se è presente ileo, aggiungere vancomicina rettale 500 mg in 100 ml di soluzione salina 4 volte al giorno. Metronidazolo endovena 500 mg 3 volte al giorno rappresenta un’alternativa, ma in associazione a vancomicina orale o rettale.4,5

Nell’ambito della gestione delle forme gravi, nei rari casi di megacolon tossico refrattario alla terapia, deve essere preso in considerazione il ricorso al trattamento chirurgico: colectomia subtotale con ileostomia terminale oppure, in alternativa, ileostomia e lavaggio del colon con vancomicina.4,7

Sebbene le forme particolarmente severe possano rappresentare una vera e propria emergenza clinica, il problema gestionale più complesso è tuttavia rappresentato dal trattamento delle forme recidive, che possono essere espressione sia di reinfezione da ceppi differenti che di mancata eradicazione dello stipite originario.157

Posto che la recidiva non è definita dalla sola positività della ricerca di tossine ma dall’associazione del parametro microbiologico con quello clinico, il rischio aumenta esponenzialmente con il numero di episodi; esso, infatti, è stimato intorno al 20% dopo il primo evento di ICD, ma sale al 40% dopo la prima recidiva ed al 60% dopo le successive. È dunque evidente come la gestione delle recidive sia un problema clinico non indifferente.

Le linee guida IDSA-SHEA4,5 ed ESCMID 6, per il trattamento antibiotico della prima recidiva di ICD nell’adulto, fanno riferimento a vancomicina e fidaxomicina al seguente dosaggio:

vancomicina orale 125 mg 4 volte al giorno per 10 giorni oppure

vancomicina orale 125 mg 4 volte al giorno per 10-14 giorni, 2 volte al giorno per 7 giorni, 1 volta al giorno per 7 giorni, infine ogni 2-3 giorni per 2-8 settimane oppure

fidaxomicina orale 200 mg 2 volte al giorno per 10 giorni oppure

fidaxomicina orale 200 mg 2 volte al giorno per 10 giorni o 200 mg 2 volte al giorno per 5 giorni e a seguire 200 mg 1 volta al giorno per 20 giorni.

Se l’episodio iniziale di ICD è stato trattato con fidaxomicina, prendere in considerazione l’aggiunta di bezlotoxumab ad un trattamento antibiotico standard orale con vancomicina o fidaxomicina.


Nei casi di recidive plurime nell’adulto, le linee guida IDSA/SHEA4,5 ed ESCMID6 raccomandano i seguenti regimi:

vancomicina orale 125 mg 4 volte al giorno per 10-14 giorni, 2 volte al giorno per 7 giorni, 1 volta al giorno per 7 giorni, infine ogni 2-3 giorni per 2-8 settimane

oppure

vancomicina orale 125 mg 4 volte al giorno per 10 giorni, seguita da rifaximina 400 mg 3 volte al giorno per 20 giorni

oppure

trapianto di microbiota fecale (Fecal Microbiota Transplant, FMT) dopo trattamento antibiotico orale

oppure

bezlotoxumab in aggiunta al trattamento antibiotico orale.


Nel contesto delle terapie di supporto all’antibiotico per la gestione delle recidive, l’immunoterapia rappresenta una valida strategia. Per i pazienti con un episodio di ICD ricorrente negli ultimi 6 mesi, le linee guida IDSA-SHEA5 suggeriscono di utilizzare l’anticorpo monoclonale bezlotoxumab 10 mg/kg somministrato una volta per via endovenosa nell’arco di 60 minuti, in contemporanea alla terapia antibiotica specifica. Bezlotoxumab può essere preso in considerazione anche per i pazienti con primo episodio di ICD e altri fattori di rischio per recidiva di ICD (per esempio età ≥65 anni, immunocompromessi per storia o uso di terapia immunosoppressiva, ICD grave alla presentazione). I dati sulla combinazione di bezlotoxumab e fidaxomicina sono limitati. La FDA raccomanda un uso cauto di bezlotoxumab nel paziente con scompenso cardiaco congestizio.

L’AIFA ha ammesso bezlotoxumab alla rimborsabilità da parte del SSN con prescrizione mediante una “scheda di monitoraggio” che ne limita l’uso al trattamento dei pazienti con diagnosi microbiologica di recidiva di ICD, già in trattamento con terapia antibiotica specifica, in presenza di almeno una tra le seguenti condizioni: soggetti di età maggiore di 65 anni, forma severa di ICD, soggetti immunodepressi.


Per quanto concerne l’età pediatrica, il trattamento consigliato dalle linee guida IDSA-SHEA4,5 per il primo episodio e la prima recidiva di ICD è il seguente:

metronidazolo orale 7,5 mg/kg 3-4 volte al giorno (dose massima 500 mg 3-4 volte al giorno) per 10 giorni

oppure

vancomicina orale 10 mg/kg 4 volte al giorno (dose massima 125 mg 4 volte al giorno) per 10 giorni.

 


In caso di primo episodio di ICD severa/fulminante in età pediatrica, le linee guida IDSA-SHEA4,5 consigliano vancomicina orale 10 mg/kg 4 volte al giorno (dose massima 500 mg 4 volte al giorno) con o senza metronidazolo orale 10 mg/kg 3 volte al giorno (dose massima 500 mg 3 volte al giorno) per 10 giorni.


Per il trattamento della seconda o successiva recidiva di ICD in età pediatrica le linee guida IDSA-SHEA4,5 prevedono il ricorso a:

vancomicina orale 10 mg/kg 4 volte al giorno (dose massima 125 mg 4 volte al giorno) per 10-14 giorni, 2 volte al giorno per 7 giorni, 1 volta al giorno per 7 giorni, infine ogni 2-3 giorni per 2-8 settimane

oppure

vancomicina orale 10 mg/kg 4 volte al giorno (dose massima 500 mg 4 volte al giorno), seguita da rifaximina 400 mg 3 volte al giorno per 20 giorni

oppure

trapianto di microbiota fecale (Fecal Microbiota Transplant, FMT) dopo trattamento antibiotico orale.



4.10 Trapianto di microbiota fecale


Il trapianto di FMT è presente da molto prima della medicina moderna. Il primo caso documentato di materiale fecale ingerito per scopi medicinali risale al IV secolo della medicina cinese, quando il medico Ge Hong usò questa tecnica per trattare gravi diarree o intossicazioni alimentari. È stato documentato come “zuppa gialla”, nella Cina del XVI secolo, nel libro Bencao Gangmu di Li Shizhen, per il trattamento delle malattie gastrointestinali. Una pratica simile al FMT, chiamata “rumen transfaunation”, è ampiamente utilizzata in medicina veterinaria ed è stata documentata per la prima volta in Svezia nel 1776; il processo prevede il trasferimento di cibo parzialmente digerito dal primo stomaco di un animale donatore sano per trattare l’indigestione in un animale ricevente malato.162

Nella medicina moderna, la prima ricerca pubblicata sul concetto di FMT è stata condotta da Eiseman et al. nel 1958 e prevedeva clisteri fecali come trattamento aggiuntivo per la colite pseudomembranosa indotta da antibiotici. Sebbene tra il 1958 e il 2010 non vi sia stata più alcuna pubblicazione in letteratura su questa tecnica, dal 2010 il FMT è stato sempre più considerato come efficace terapia per le ICD con frequenti recidive.163,164

Il principio alla base del FMT consiste nel ripristinare un microbiota intestinale sano (simbiosi) da uno stato alterato del microbiota intestinale (disbiosi); questo viene effettuato tramite il trasferimento di feci da un donatore con microbioma presumibilmente sano a un ricevente con un microbioma alterato. Poiché CD è considerato un batterio opportunista, che causa la malattia in condizioni di disbiosi, il ripristino di una normale microflora intestinale ne consente la competizione con quella del ceppo tossigeno di CD con conseguente risoluzione dell’ICD. Un documento di consenso del 2010 ha identificato 3 indicazioni primarie per il FMT: (1) ICD recidivanti multiple, (2) ICD moderata senza risposta alla terapia standard (vancomicina o fidaxomicina) per almeno 1 settimana e (3) ICD grave o fulminante senza risposta alla terapia standard entro 48 ore.165

I donatori di FMT devono essere sottoposti ad un rigoroso screening per ridurre al minimo il potenziale rischio di trasmettere un’infezione. Le attuali linee guida sul FMT raccomandano l’utilizzo di un questionario per i donatori simile a quello utilizzato per la donazione di sangue, seguito da una valutazione sierologica (HIV, sifilide, HAV, HBV, HCV) e delle feci per rischio infettivo ed esclusione di altre condizioni potenzialmente correlate con la trasmissione della malattia. Lo screening sierologico include la ricerca di: HIV, Treponema pallidum, HAV, HBV e HCV. Lo screening delle feci include la ricerca di: Clostridioides difficile, Giardia, Cryptosporidium, Isospora e Cyclospora, Escherichia coli 0157, Rotavirus, Listeria, Vibrio, Norovirus, Cytomegalovirus, Human T-cell lymphotropic virus, Epstein-Barr virus, Dientamoeba fragilis, Blastocystis hominis, Strongyloides stercoralis, Entamoeba histolytica, Helicobacter pylori, Schistosoma, JC virus, Vancomicyn-resistant enterococci, Methicillin-resistant Staphylococcus aureus. I criteri di esclusione per i donatori di feci comprendono: febbre di origine sconosciuta, sospetto di malattia infettiva, diabete mellito, obesità, sindrome metabolica, malattia autoimmune, malattia neurologica, malattia trasmissibile attiva (HIV, HBV, HAV, HCV, ecc.), esposizione a fattori di rischio per epatiti o HIV negli ultimi 12 mesi, viaggio in aree ad alto rischio per diarrea di origine infettiva negli ultimi 12 mesi, sindrome diarroica acuta negli ultimi 6 mesi, disturbi diarroici cronici (sindrome dell’intestino irritabile o diarrea funzionale, malattie infiammatorie intestinali, colite microscopica, malattia celiaca), costipazione cronica, neoplasia maligna del colon, storia di ICD, ospedalizzazione negli ultimi 12 mesi, terapia antimicrobica negli ultimi 12 mesi, comportamento sessuale a rischio (omosessualità, multipli partner sessuali), terapia immunosoppressiva o antineoplastica, uso illecito di droghe, tatuaggi recenti, incarcerazione, recente ingestione di allergeni non noti, malnutrizione moderata o severa.166,167

I primi passi nella preparazione delle feci del donatore per il FMT includono la diluizione del campione, di solito con soluzione fisiologica, seguita dall’omogeneizzazione e filtrazione delle feci. Le feci preparate possono essere utilizzate direttamente o congelate per uso futuro.163

Per la somministrazione di feci i metodi attualmente utilizzati includono il tratto gastrointestinale superiore con endoscopia, tubi nasointestinali o ingestione di pillole, la parte prossimale del colon mediante colonscopia, la parte distale del colon mediante clistere, tubo rettale o sigmoidoscopia. Nei casi più complessi può essere preferibile un metodo combinato di somministrazione.167

I pazienti sottoposti a FMT durante il ricovero sono spesso costretti a letto e molto probabilmente si trovano in un ambiente contaminato dalle spore del CD. Immediatamente prima del FMT è quindi indispensabile che il letto e la stanza del paziente siano puliti adeguatamente, per ridurre al minimo il carico di spore del CD e migliorare i tassi di efficacia del FMT.167

ESCMID,3 IDSA-SHEA4 e ASCRS7 raccomandano di considerare il FMT nei pazienti con ICD multi-recidivante o refrattaria ai regimi terapeutici convenzionali.



4.11 Misure da adottare in caso di epidemia


Non esiste una definizione univoca di epidemia (outbreak) che, secondo differenti autori, può essere identificata al verificarsi di:

un incremento dei tassi di ICD nello spazio e nel tempo, che si ritiene essere superiore a quanto atteso dal puro caso;152

occorrenza di 2 o più casi correlati in un arco di tempo definito ed in uno spazio determinato, tenendo conto dei tassi normali.153

Si definisce focolaio (cluster) la situazione che si verifica a fronte di un gruppo di casi di ICD che si presentano entro una “cornice” di tempo e localizzazione suggestive di una possibile associazione tra i casi rispetto alla trasmissione. Il sospetto si basa sul dato epidemiologico; la conferma si basa sullo studio dei ceppi, per verificare se si tratta di uno stesso ceppo.

Quando si individua un aumento del numero di casi di ICD rispetto ai dati standard di una unità operativa/struttura, è comunque necessario intervenire rapidamente:

conducendo una accurata indagine epidemiologica;

ponendo in atto una serie di misure idonee a contenere il rischio infettivo (applicazione del bundle).

Le misure raccomandate come prioritarie sono di due tipi: di sistema e comportamentali.


Misure di sistema

• Verifica del corretto utilizzo dei DPI.

• Verifica dell’adesione all’igiene delle mani.

• Utilizzo di materiali dedicati/monouso, verifica delle procedure di riprocessazione dei dispositivi medici.

• Adozione delle precauzioni da contatto.

• Isolamento/isolamento per coorte/minimizzazione del numero di pazienti per stanza. L’isolamento di pazienti con sospetta ICD prima della diagnosi di laboratorio è risultata misura efficace in corso di epidemia.

• Intensificazione dell’igiene ambientale.


Misure educative-comportamentali

• Diagnosi rapida e rapido trattamento empirico.

• Richiamo all’attenzione/eventuali cambiamenti nelle misure di igiene delle mani.

• Informazioni al paziente e ai visitatori.

• Strategie per il corretto utilizzo degli antibiotici, in particolare limitando l’utilizzo di antibiotici ad alto rischio di favorire ICD.


Poiché il verificarsi di un episodio epidemico richiede interventi rapidi, è opportuno che ogni struttura disponga di un protocollo locale scritto con l’indicazione delle misure da adottare in tale evenienza.

Per ulteriori informazioni in merito alla gestione degli eventi epidemici vedi allegato E.



4.12 Clostridioides difficile bundle


Il bundle è un insieme contenuto di pratiche evidence-based che, applicate congiuntamente e in modo adeguato, migliorano la qualità e l’esito dei processi con un effetto maggiore di quello che le stesse determinerebbero se fossero attuate separatamente.

Il bundle per la prevenzione e il controllo delle ICD prevede i seguenti sei punti.

1. Inviare, nel sospetto di infezione da CD (diarrea non imputabile ad altre cause), le feci in laboratorio per il test.

2. Applicare, nei casi confermati o sospetti, le precauzioni da contatto, se possibile isolare il paziente in stanza singola.

3. Effettuare, dopo aver assistito il paziente, l’igiene delle mani con acqua e sapone o detergente-antisettico.

4. Verificare la terapia antibiotica e sospendere gli antibiotici non indispensabili.

5. Verificare che l’ambiente circostante il paziente e il servizio dedicato vengano regolarmente puliti e disinfettati con una soluzione disinfettante a base di cloro.

6. Informare il paziente, i parenti/visitatori ed il personale di supporto sulle problematiche relative al CD.





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