Pensieri in uscita – riflessioni sui mesi passati
Outgoing thoughts – reflections on the past months

Giulia Zambolin
UO di Malattie Infettive, ASST di Cremona
Clinica di Malattie Infettive, Università degli Studi di Brescia


Sono davanti alla porta del reparto. Prima di uscire mi volto per un’ultima occhiata: i corridoi vuoti, i materassi appoggiati ai muri in attesa di essere portati altrove, gli armadi aperti, spogliati.
Da qualche parte un allarme sta suonando, ma non c’è nessuno a dargli retta; domani qui inizieranno a sgomberare, i livelli di ossigeno bassi non sono più un problema.
Così, in un solitario saluto, mi accingo a lasciare per l’ultima volta questo luogo. Strano pensare che sia lo stesso posto in cui ho trascorso la maggior parte degli ultimi tre mesi, così pieno di rumori, sguardi e persone che avevo ormai imparato a conoscere. Ora, in questo silenzio freddo, mi sembra di guardare una casa ormai vuota, un contenitore che ha perso la sua anima.
I pazienti sono stati dimessi, alcuni trasferiti; ne sono passati tanti, tutti uguali eppure così intimamente differenti. Alcuni mi resteranno dentro e neppure io so spiegarmi bene il perché: per una storia, per avermi strappato un sorriso, per un particolare diverso da tutti gli altri, piccola scintilla di umanità in una miriade di attimi vertiginosamente uguali tra loro.
Come lei, che mi raccontava del marito a casa: doveva tornare per lui, che aveva sposato tanti anni fa e che non sarebbe stato proprio capace di rimanere da solo, così anziano. Parlava lentamente mentre con l’ago le frugavo il braccio alla ricerca di un’arteria troppo sottile per essere percepita. Le stavo facendo male, sicuro, ma lei sembrava far finta di nulla e continuava a raccontarmi di quella storia così normale ed unica, regalandomi la scusa per un altro tentativo. Per ottenere cosa, poi? La ascoltavo evitando di chiedermelo.
“Ecco fatto signora, è stata dura ma ci siamo riusciti!”.
I valori non andavano bene; l’abbiamo trasferita ed è morta poche ore dopo.
Chissà il marito, a casa da solo.
Guardo la porta d’uscita. La bandiera con l’arcobaleno che ci siamo ostinati a sistemare ogni volta che è caduta ora è lì, quasi a terra, aggrappata ad un ultimo pezzo di cerotto.
Andrà tutto bene.
E mi ritrovo a pensare che no, non è andato tutto bene.
Ci hanno chiamati eroi per aver fatto il nostro dovere nel momento in cui serviva, e forse all’inizio anche noi ci siamo sentiti un po’ così, eroi invincibili pronti a fronteggiare un nemico sconosciuto. Poi, però, quel nemico si è avvicinato e ci ha coperti, travolti. Ridimensionati.
Mattoni, ecco cosa siamo stati; mattoni di un argine che è riuscito a reggere mentre l’acqua strabordava e proseguiva la sua corsa. Ne abbiamo ridotto la portata, certamente, ma non si può parlare di vittoria guardando le macerie rimaste dietro di noi.
Un’intera generazione decimata, le colpe di molti e quindi di nessuno.
Eravamo impreparati? Ovvio, nessuno può dirsi davvero preparato ad un evento simile; ma nascondere tutto sotto il tappeto del “non potevamo aspettarcelo” non basterà a giustificare gli errori. Troppi meccanismi non hanno funzionato, troppe voci sono rimaste inascoltate negli anni, quando si osava ricordare l’importanza della sanità pubblica e se ne denunciava il lento e silenzioso smantellamento. Noi eravamo l’“eccellenza” e chi si permetteva di obiettare non era altro che un gufo disfattista.
Così gli Ospedali sono diventati Aziende, il territorio ha visto scomparire i suoi presìdi – quelli sì, veri argini che avrebbero potuto frenare l’onda – ed i pazienti si sono trasformati in DRG, codici, rimborsi.
Molti i Don Chisciotte che hanno continuato la loro battaglia per fermare questo lento scivolare: sottopagati, sminuiti, inascoltati; eppure guardandoci attorno, oggi, ci rendiamo conto che i mulini a vento contro cui combattevano non erano poi così immaginari.
Di loro, però, non si sentirà mai parlare, con i media troppo impegnati a cercare l’eroe del momento, pronto all’uso e non troppo scomodo, se possibile.
Così eccoci tutti a seguire il triste teatrino degli “scienziati”, degli esperti, dei superman in corsia, pronti a giocarsi reputazioni sciorinando numeri, revisioni e risultati puntualmente smentiti pur di guadagnarsi il loro quarto d’ora di celebrità. Come se la medicina fosse questo, come se la ricerca potesse essere ridotta ad un sensazionalistico titolo di giornale, al farmaco miracoloso, alla cura rivoluzionaria. Poteva essere la grande rivincita della scienza sulla tuttologia che da troppo tempo imperversa e si fa strada, invece è stata solo l’ennesima occasione persa.

E noi? Ci siamo ripetuti che ne saremmo usciti diversi, cambiati, migliori. Forse in parte è stato così, ma l’impressione ultima è che non siamo più in grado di ammetterci impotenti di fronte a qualcosa. Non siamo abituati all’idea che esistano eventi capaci di sfuggire al nostro controllo, terrorizzati come siamo dal vederci privati della nostra “normalità”, del riconoscerci fragili e fallibili. Se le cose vanno male la colpa deve per forza essere di qualcuno e la soluzione non può che essere a portata di mano; eppure basterebbe spingere un po’ più in là lo sguardo per accorgersi di quanto questa nostra egocentrica visione del mondo sia assolutamente minoritaria, di quanto quella che noi ci ostiniamo a considerare normalità sia soltanto un mucchio di immeritati privilegi.
È andata così.
Abbasso la maniglia, apro la porta e penso a quanti pazienti l’hanno attraversata sulle loro gambe, in questi mesi, dopo giorni di lotta finalmente vinta. Si sono lasciati dietro un saluto, un sorriso, un “grazie” che spesso è stata la ricompensa migliore.
Ripenso a loro e a tutti quei Don Chisciotte che mi sono stati accanto condividendo stanchezze, sorrisi, rabbia e piccole vittorie, che ci sono sembrate così grandi in mezzo alla tempesta.
Persone normali, non eroi, che si sono trovate a fare il loro dovere il meglio possibile. Piccoli mattoni che non hanno fermato l’onda, ma di certo sono riusciti ad arginarne i danni.
Silenzio.
Di questo avremmo avuto bisogno in mezzo alle troppe parole dette per forza, alle certezze vomitate per nascondere le nostre fragilità.
Un passo, poi la porta si richiude alle mie spalle.